I 70 anni dell’Unhcr, un anniversario scomodo


La redazione


L’Alto Commissariato compie settant’anni: è una ricorrenza scomoda, perché purtroppo la sua missione è sempre più ampia e sarebbe meglio se non dovesse esistere


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Il 14 dicembre l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati compie 70 anni. Per un’organizzazione che avrebbe dovuto cessare di esistere dopo soli tre anni, è un anniversario scomodo — uno di quelli che non si festeggiano.

Mentre un mondo distrutto iniziava a rinascere dopo la Seconda guerra mondiale, all’Unhcr fu dato il compito di trovare rifugio a migliaia di persone che il conflitto, in Europa, aveva obbligato alla fuga.

Nato il 14 dicembre 1950, l’ufficio dell’Alto Commissario aveva un mandato limitato nel tempo, geograficamente circoscritto ed esplicitamente non politico, come se la sua esistenza fosse un ricordo del dolore da spazzare via presto, insieme alle macerie.

Ma i cambiamenti geopolitici portarono presto nuovi conflitti, creando quindi più rifugiati, e la missione dell’Unhcr ha cominciato e continuato ad allargarsi. L’era post-coloniale è stata accompagnata da lotte di liberazione, e poi da lotte per il potere, che hanno costretto milioni di persone alla fuga. Anno dopo anno, continente dopo continente, l’Unhcr ha dovuto assistere un numero di rifugiati in costante, tragica crescita.

L’anno scorso ha segnato quattro decenni di esodi forzati dall’Afghanistan. L’anno prossimo segnerà un decennio dallo scoppio del conflitto in Siria. E così via, una serie di anniversari indesiderati, nuovi conflitti che emergono o riemergono, mentre gli effetti di quelli vecchi devono ancora sbiadire.

Di conseguenza, l’Unhcr ha dovuto ripetutamente adoperarsi per proteggere in ogni modo, e con ogni risorsa disponibile, le persone in fuga dalle loro case e dai loro Paesi. Questo ha spesso comportato difficili compromessi. Noi non siamo presenti quando si decidono i destini delle nazioni e dei popoli, ma siamo sempre in prima linea, vicino alle persone costrette a fuggire, quando i conflitti rimangono irrisolti. Per statuto siamo un’organizzazione apolitica, ma il nostro lavoro — tra crisi e emergenze — spesso comporta una diplomazia complessa e delicata, per non parlare delle decisioni difficili e alle scelte quasi impossibili a cui spesso siamo confrontati cercando di proteggere e assistere milioni di persone vulnerabili in mezzo a conflitti violenti e complicati, con risorse che semplicemente non stanno al passo con i bisogni.

I colleghi dell’Unhcr, da sempre, e ancora oggi, sono fieri di avere protetto, cambiato e molte volte salvato tante vite umane.

E sono determinati ad affrontare nuove sfide, come l’emergenza climatica o la pandemia del coronavirus – fattori che amplificano i già significativi problemi posti dalle migrazioni forzate. Allo stesso tempo, vorrebbero non doverlo fare.

Perché se invece di nuovi conflitti ci fossero più accordi per un cessate il fuoco; se per più rifugiati fosse realmente possibile ritornare a casa senza timore, e con dignità; se più governi si facessero carico di accogliere rifugiati, ricollocandone quote maggiori da quei Paesi — spesso privi di risorse — che già ne accolgono milioni; se gli Stati rispettassero sempre i loro obblighi internazionali in materia di asilo, e i principi fondamentali della protezione dei rifugiati, come quello di non respingerli e riconsegnarli a guerre e violenza; se tutto questo accadesse, noi dell’Unhcr avremmo molto meno problemi di cui occuparci e preoccuparci.

Purtroppo, la realtà è diversa. Nell’ormai lontano 1994, nel Paese che allora si chiamava Zaire (ed è ora la Repubblica Democratica del Congo) facevo parte della squadra d’emergenza che l’Unhcr aveva spedito alla frontiera ruandese per far fronte a un enorme esodo di rifugiati: in soli quattro giorni, un milione di uomini, donne e bambini avevano attraversato il confine fuggendo dal Ruanda lacerato dal genocidio e dalla violenza, per poi trovarsi improvvisamente nel cuore della peggiore epidemia di colera dei nostri tempi, che ha ucciso decine di migliaia di persone.

A noi, che avevamo il compito di proteggere i rifugiati, toccò invece scavare tombe. E se indubbiamente, nel corso delle nostre vite professionali, pensiamo spesso alle vite che abbiamo contribuito a salvare — a quei momenti di luce in cui la disperazione di un rifugiato si trasforma in speranza anche grazie ai nostri sforzi — non smettiamo mai di pensare, purtroppo, alle molte vite che non siamo riusciti a salvare.

Quasi un anno fa, il numero totale di rifugiati, sfollati interni, richiedenti asilo e apolidi ha raggiunto l’1% della popolazione mondiale. Una percentuale terribile, che aumenta ogni anno: dobbiamo davvero chiederci quando verrà il momento in cui sarà considerata inaccettabile: quando raggiungerà il 2%? Il 5%? O non ancora?

Quante persone devono ancora subire il lutto e l’affronto dell’esilio prima che i leader politici — conflitto dopo conflitto — decidano di affrontare sul serio le cause di quelle fughe?

Così, in occasione del 70° anniversario dell’Unhcr, la mia sfida alla comunità internazionale è questa: mandatemi a casa.

Fate in modo che l’obiettivo sia veramente quello di costruire un mondo in cui non ci sia bisogno di un’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati, un mondo in cui nessuno finalmente sia costretto a fuggire.

E per favore non fraintendetemi: per come stanno le cose, il nostro lavoro è fondamentale e necessario, eppure il paradosso è che non dovremmo esistere. E se ci ritroveremo a osservare molti altri anniversari, l’unica conclusione sarà che tutti insieme abbiamo fallito nel compito fondamentale di fare la pace.

Ma siamo realisti. Milioni di rifugiati e sfollati provengono da una mezza dozzina di Paesi. Se cominciassimo a risolvere i problemi che li hanno costretti a fuggire, milioni di persone potrebbero tornare a casa. Sarebbe un ottimo inizio, e sarebbe qualcosa che tutti noi potremmo davvero festeggiare.

Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati

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