Un odio ordinario


Luigi Manconi


L’incendio del campo rom a Torino è un modello esemplare di uno sfacelo culturale. Ieri due senegalesi sono stati uccisi a Firenze. L’assassino ha aperto il fuoco al mercato di piazza Dalmazia. Per Luigi Manconi è la caduta del tabù del razzismo che genera gli “imprenditori dell’intolleranza”.


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Un odio ordinario

Non so a voi, ma a me questa storia torinese dello stupro finto e dell’incendio vero al campo rom, fa davvero impressione. L’anno prossimo saranno venticinque anni da quando ho iniziato a interessarmi al tema e dunque, di episodi simili, mi è capitato di osservarne parecchi. Eppure questo ha una sua perfetta esemplarità e una rappresentatività così plastica da costituire un vero e proprio paradigma. Un modello, dunque, tanto più efficace e riproducibile quanto più lo si consideri principalmente come una tecnica dell’azione, a prescindere da ogni possibile contesto politico.

Va detto: è la tecnica del linciaggio, proprio sotto il profilo del repertorio utilizzato, della strumentazione cui si è fatto ricorso, della tempistica e della logistica. E anche, ma non è l’elemento fondamentale, dello scenario ideologico entro cui quella tecnica è stata applicata. E, quindi, perché non chiamare tutto ciò con il suo vero nome? Tentativo di linciaggio, appunto. Credo che la ragione consista in una tendenza alla sottovalutazione da parte del sistema politico (in particolare quello orientato a destra); tendenza che ha, a sua volta, una radice definibile come ideologica. E, infatti, dal momento che il bersaglio dell’azione di pogrom è in genere un campo rom (è già successo numerose volte), denunciare la gravità del fatto e delle sue implicazioni sembra concedere troppo a una rappresentazione sociale “politicamente corretta” e all’enfasi “buonista” sulla tutela degli ultimi.
Questo rende la cultura di destra singolarmente reticente e la induce a concentrarsi più sulle “strumentalizzazioni politiche” che sui fatti nella loro cruda verità. E i fatti dicono una cosa ben precisa: dicono che a prescindere dall’identità del bersaglio – un campo rom o un campo scuola del Pdl – quello che viene messo in atto è comunque un modello di caccia all’uomo e di procedura di linciaggio.

Che diavolo è mai accaduto, nell’opinione pubblica nazionale, perché tutto ciò diventasse accettabile? Un sistema di circostanze e situazioni dove l’azione minoritaria di un’avanguardia criminale incontra, quando non consenso, certamente omertà e protezione. Peserà sicuramente, nel favorire quell’atteggiamento che porta a farsi giustizia da sé, l’idea così diffusa che “qui ciascuno fa i suoi porci comodi” e che “in galera non ci resta mai nessuno”. Ma, ancor prima, c’è una struttura del pensiero e dell’azione che si è ormai radicata in settori estesi di popolazione. Come ha detto il sindaco di Torino, Piero Fassino: perché mai una sedicenne, che vuole nascondere il primo atto sessuale, è portata irresistibilmente a “puntare l’indice contro due rom”, precisando che “puzzavano”? C’è da pensare che nel senso comune e nell’immaginario sociale il meccanismo della stigmatizzazione del rom sia giunto alla sua più perfetta implementazione. In altre parole, uno degli atti più efferati e spregevoli sembra diventare, senza incontrare alcuna resistenza, un “reato d’autore”: una fattispecie penale discendente in maniera diretta da una appartenenza etnica (prima i rumeni, poi i rom e, ancor meglio, i rom di origine rumena), che diventa tratto psicologico inequivocabile, pulsione patologica e inclinazione criminale. Ci rendiamo conto di quale sfacelo culturale ciò determini?

C’è, poi, la struttura delle reazioni. Qui il modello si fa ancora più rigido, nella sua reiterazione. L’assembramento solidale che si fa istanza di giustizia subito e a tutti i costi, l’individuazione del bersaglio attraverso i contorni di un identikit mai verificato, la spedizione punitiva, la guida assunta da chi ne ha competenza tecnica e volontà politica,  intesa come capacità di gestire una mobilitazione collettiva. E ancora tecnica: bombe carta, bottiglie molotov e fumogeni. La strumentazione è quella tante volte utilizzata nel corso di manifestazioni politiche e di azioni del tifo organizzato. Tutto ciò dimostra come la spontaneità della reazione, che pure c’è stata, trovi oggi canali prontamente attivabili dove confluire, bersagli contro i quali indirizzarsi, leadership alle quali affidarsi. E’ questo che fa la differenza e che costituisce l’insidia più pericolosa.

Se un quarto di secolo fa cominciammo a delineare i contorni di un ceto di “imprenditori politici dell’intolleranza”, intenzionati a trasferire sulla sfera pubblica il disagio prodotto dall’impatto faticoso tra immigrati e residenti, oggi si assiste a un processo di polverizzazione e moltiplicazione di quello stesso ceto. Ogni quartiere delle grandi aree metropolitane ha un suo demagogo e un gruppo di agitatori, immediatamente mobilitabili, e bersagli già individuati. Ecco ciò che rende la situazione davvero preoccupante. Come è stato possibile che tutto ciò venisse bellamente ignorato finora? Forse una parte almeno della risposta è rintracciabile nel fatto che, fino a poche settimane fa, il ministro dell’Interno fosse un uomo come Roberto Maroni, apprezzato anche a sinistra per ragioni davvero imperscrutabili che, appena lasciato il Viminale, ha ripreso gli antichi (e comodissimi) panni del facinoroso. Gli imprenditori politici dell’intolleranza sanno fare bene il loro mestiere sia al governo che all’opposizione.

Fonte: IlFoglio.it

13 dicembre 2011

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L’uomo nero a Firenze

Un pazzo, o un pazzo razzista. Un uomo uccide due senegalesi in preda a una furia xenofoba. Per Luigi Manconi è la caduta del tabù del razzismo che genera gli “imprenditori dell’intolleranza”.

Un uomo che apre il fuoco in due mercati di Firenze, uccide due ambulanti senegalesi, ne ferisce gravemente altri, viene raggiunto dalla polizia in un parcheggio sotterraneo e si spara al petto per evitare la cattura (o, dice un’altra versione, nel corso di uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine). “Un pazzo”, dicono alcuni mentre un corteo di senegalesi attraversa la città (con momenti di tensione). “Un razzista”, dicono altri. “Un pazzo razzista”, dicono altri ancora, mentre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano invita a ripudiare ogni “predicazione di razzismo”. L’uomo, Gianluca Casseri, ragioniere, solitario, cinquantenne fondatore di una rivista della destra radicale, viene descritto come “vicino” a Casa Pound. L’associazione ieri diceva: era solo un simpatizzante, lo conoscevamo appena, non siamo soliti chiedere la patente di sanità mentale.

Il sociologo Luigi Manconi studia il tema dell’intolleranza da venticinque anni. Premette che “esiste la psicopatologia ed è altamente probabile che questo criminale fosse affetto da qualche patologia grave”, e però poi dice: “Un conto sono le parole, con la loro libertà sregolata, un conto gli atti”. Da garantista Manconi ritiene “sanzionabili soltanto gli atti”, ma pensa anche che “Casa Pound debba cominciare a interrogarsi, perché è troppo lungo l’elenco degli aderenti al movimento che si sono trovati coinvolti non in propaganda, ma in azioni criminali”. Dopodiché, dice Manconi, “se nel senso comune si diffonde una sorta di automatismo che attribuisce allo straniero la responsabilità dei crimini, per un verso, e del disordine sociale, per l’altro, è inevitabile che persone variamente fragili, come la sedicenne torinese che non riesce a giustificare la propria libertà sessuale e accusa il rom o il sociopatico che cerca una sorta di rivalsa sociale, si indirizzino contro la figura del diverso da noi”. Un meccanismo, questo, che in Italia “da un lato è stato attivato e dall’altro sottovalutato”. Abbiamo vissuto per decenni “con il tabù del razzismo”, dice Manconi, perché “le subculture prevalenti nel paese – di origine socialista-comunista, religiosa-cristiana e liberaldemocratica – avevano prodotto un’interdizione morale nei confronti del razzismo, al punto che l’accusa di razzismo era quella socialmente e moralmente più riprovevole”. Come tutti i tabù, anche quello del razzismo alludeva “a una rimozione, ma costituiva anche una forma di deterrente, di tutela sociale”. C’è uno spartiacque temporale, l’autunno del 2007, dice Manconi, “l’autunno dell’omicidio di Giovanna Reggiani, uccisa a Roma da un romeno”. Fino ad allora “non era stata accolta nello spazio pubblico l’equazione romeno uguale stupratore, circolante nel discorso corrente e presso alcuni gruppi periferici o esponenti poco significativi del ceto politico”. Dopo l’omicidio Reggiani, però, “quell’equazione viene addirittura pronunciata, detta nella campagna elettorale per il comune di Roma e per le politiche del 2008”. E’ a quel punto, dice Manconi, “che il tabù del razzismo comincia a sgretolarsi e non funziona più come strumento di tutela sociale”. Questo fa sì che “la stigmatizzazione del romeno in quanto stupratore, e del rom in quanto ladro di bambini, possa dispiegarsi come automatismo nonostante l’insignificanza statistica: una ricerca mostra che, dal 1945 a oggi, non è stato mai processato alcun rom o sinti, in Italia, per rapimento di bambini, tranne un caso nel napoletano. Ma non basta ad annullare lo stereotipo”.

Nel 1988 Manconi ha scritto un saggio in cui parlava di “imprenditori politici dell’intolleranza”. Figure più che mai attuali: “Il disagio dell’impatto tra migranti e residenti è un dato incontestabile”, dice, “ed è incontestabile anche che il disagio si scarichi sulle fasce più deboli”. Ma il problema è “se la politica disinnesca o incentiva, se razionalizza le angosce e trova soluzioni intelligenti o esalta la conflittualità”. L’imprenditore dell’intolleranza “è chi avverte quel disagio, lo trasferisce sul piano pubblico e ne fa una risorsa politica”. Rispetto al 1988, dice Manconi, “gli imprenditori politici dell’intolleranza si sono evidenziati e moltiplicati in tutte le aree metropolitane delle nostre città. Spesso restano in ambito prepolitico, ma se questa presenza si sposa con forme organizzate di aggressività, ed è quello che è successo a Torino, viene agevolmente incanalata in strutture di mobilitazione già collaudate”. A questo si aggiunge “la sottovalutazione”. Manconi si chiede come mai “una destra che si dice moderna ed europea non si metta a urlare di fronte a fatti come quello di Firenze. Teme la Lega? Teme di fare il gioco del ‘nemico’? Angelino Alfano dovrebbe essere domani, subito, in prima fila in piazza a Firenze”.

Fonte: IlFoglio.it

14 dicembre 2011

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