Trent’anni fa il genocidio in Ruanda


Avvenire


Da quel 6 aprile del 1994, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche. Tedeschi e belgi avevano preparato lo scenario, dividendo i ruandesi per tribù


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Trent’anni. E sembra ieri. I machete che si alzavano per uccidere il vicino, le radio che incitavano all’odio, l’Occidente che si girava dall’altra parte, dopo aver contribuito a creare le premesse per il disastro.

Ottocentomila morti in 100 giorni, nella stragrande maggioranza tutsi, per mano delle milizie hutu, il gruppo maggioritario del popolo ruandese. L’odio e l’orrore li abbiamo visti e raccontati in mille ricostruzioni, film, libri, testimonianze, un flusso di parole e immagini che hanno provato a descrivere come, da quel 6 aprile del ’94, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche.

Gli europei – i tedeschi prima, i belgi dopo – avevano preparato lo scenario, introducendo negli anni Trenta le carte d’identità e dividendo i ruandesi per tribù: prima, in Ruanda, si consideravano tutti ruandesi.

Poi i colonizzatori favorirono la minoranza tutsi, considerandola superiore. Funzionò fino alla “rivoluzione hutu” dei primi anni Sessanta, primo soffio di quella ventata d’odio che sferzò il Ruanda fino al genocidio, a quello «schiacciare gli scarafaggi tutsi» di cui il mondo finse di accorgersi troppo tardi.

La notte di quel 6 aprile l’aereo su cui viaggiava l’allora presidente ruandese Juvénal Habyarimana, un hutu, fu colpito con un missile terra-aria vicino all’aeroporto della capitale Kigali. Fu la scintilla che causò la successiva uccisione del 20% della popolazione ruandese e lo smembramento di famiglie, comunità, amicizie nel Paese dalle mille colline. Uno dei massacri più sanguinosi avvenne a Murambi: 50mila tutsi, abbandonati dalle truppe francesi, vennero massacrati in appena otto ore. Molti di loro si erano rifugiati in un centro di formazione. Sopravvissero appena in 34: oggi il memoriale che ricorda quell’eccidio è uno dei sei principali luoghi della memoria di quanto avvenne in quei giorni.

Gli assalti di massa finirono solo quando il Fronte patriottico ruandese, un’armata formata da tutsi e hutu moderati e guidata dall’attuale presidente Paul Kagame, riuscì a conquistare la capitale. Era metà luglio, le immagini delle file infinite dei teschi delle vittime del genocidio facevano il giro del mondo, mentre un milione di profughi hutu, ai quali si mischiarono le brutali milizie Interamwe, fuggiva nei Paesi vicini per paura di vendette. C’erano, evidentemente, troppe persone da processare e con ruoli diversi nel genocidio: ai tribunali locali si affiancarono nel tempo un Tribunale penale internazionale con sede ad Arusha, in Tanzania, e le corti tradizionali gacaca, che ebbero un ruolo anche di riconciliazione per le comunità, oltre che di giustizia per i sopravvissuti.

Trent’anni dopo, cosa ne è di quei fatti, che Paese è diventato il Ruanda, che ruolo ha nello scenario regionale? Kagame, 66 anni e solidi rapporti con l’Occidente, è ancora lì, vincitore di tre successive tornate di elezioni presidenziali con oltre il 95% dei voti. Il 15 luglio si vota di nuovo e non c’è dubbio alcuno sulla sua riconferma: corre da solo, o quasi. L’unico sfidante è Frank Habineza, del partito dei Verdi: nel 2017 ha avuto lo 0,45% dei consensi. Victoire Ingabire, unica esponente di spicco dell’opposizione, è stata bandita direttamente dai giudici. Non potrà candidarsi perché la magistratura ha respinto la sua richiesta di ottenere nuovamente i diritti civili di cui è stata privata dopo la contestata condanna di 11 anni fa a 15 anni di carcere, metà dei quali “abbonati” con una grazia. «Decisione politicizzata, i tribunali non sono indipendenti», il suo commento. Non potrà fare appello se non prima di due anni.

Se è difficile negare l’importante ruolo ricoperto da Kagame per la stabilità e lo sviluppo del Ruanda post-genocidio, da più parti sono arrivate negli anni al presidente ruandese accuse sul suo mancato rispetto dei diritti umani, della libertà dei media e dell’opposizione. I cambiamenti della Costituzione gli consentono di governare per altri due mandati quinquennali: difficile che Kagame ci rinunci. Negli anni il Ruanda è diventato da un lato uno dei Paesi più tecnologici del continente africano, e con indicatori in crescita su scuola e sanità, dall’altro si è assegnato il ruolo di “poliziotto d’Africa”, inviando suoi militari negli scenari di crisi diventando tra i principali fornitori di truppe per le missioni Onu. Il suo interventismo, dal Centrafrica al Mozambico, è stato spesso apprezzato, anche se qualche critica non è mancata.

Le accuse principali, però, riguardano il coinvolgimento ruandese nel Kivu, la regione orientale della Repubblica democratica del Congo ricca di risorse ma devastata dalle milizie armate. Il Ruanda è sospettato dal governo congolese di sostenere in particolare il gruppo M23. Proprio tramite il Ruanda verrebbero smerciati minerali di cui viene depredato l’Est del Congo. Tantalio, stagno, tungsteno, oro, litio, terre rare: anche l’Ue ha siglato a febbraio con Kigali un accordo sulla sostenibilità e tracciabilità di minerali strategici. Ma il Ruanda «ne è diventato grande esportatore solo grazie alle guerre che esso ha acceso a ripetizione nella Repubblica democratica del Congo a partire dal 1996, sempre attraverso interposti movimenti di copertura, che in questi anni prendono il nome di M23», hanno accusato ancora di recente otto enti tra cui Rete pace per il Congo. Lotta per le risorse e il potere, vittime, profughi: l’eterno passato che rischia di non passare mai, pur in altre forme, pur in altri modi.

 

Paolo M. Alfieri

Avvenire

6 aprile 2024

 

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