Sudan e Sud Sudan, le sfide aperte


Nigrizia.it


I due paesi hanno iniziato il 2012 in una situazione di estrema incertezza. Anche economica. Nel Nord, è sempre più forte il movimento che mira a rovesciare il regime di Khartoum. Il Sud sconta la fragilità del neo-stato e non riesce a fermare gli scontri feroci tra gruppi che non si riconoscono nel governo di Juba. Forti i timori di una nuova guerra.


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Sudan e Sud Sudan, le sfide aperte

Ufficialmente, Nord e Sud Sudan si sono separati e sono diventati due stati indipendenti, ma per storia e geografia continuano a essere legati l'uno all'altro. Lo saranno ancora a lungo: la politica provvederà a ciò. Non cesseranno gli scontri che negli ultimi mesi hanno causato centinaia di vittime civili nello stato del Nilo Azzurro, sui Monti Nuba del Kordofan Meridionale, e nello stato di Jonglei.

L'attenzione della comunità internazionale tende a focalizzarsi su alcune clausole rimaste irrisolte dell'Accordo globale di pace (Agp) del gennaio 2005, che consentiva al Sud Sudan di dichiarare la propria indipendenza (luglio 2011). Così facendo, però, rischia di sottovalutare la presenza di problemi interni a ciascun paese: un sempre più forte movimento che mira a rovesciare il Partito del congresso nazionale (Pcn) nel Nord Sudan; lo spropositato numero di sfide che il nuovo Sud Sudan deve affrontare.

Molti degli ostacoli tuttora presenti sul cammino del neostato avrebbero dovuto essere superati da Khartoum e Juba prima della separazione. Ma così non è avvenuto, perché, da subito, il Pcn ha cercato di boicottare il tentativo del Governo del Sud Sudan (GoSS) di creare dal nulla una nazione. Il Pcn, tuttavia, ha sottostimato le conseguenze che la divisone avrebbe avuto sul nord e su sé stesso. L'economia è passata dal boom (per una élite) alla stasi, e oggi nord-sudanesi delle più diverse vedute politiche parlano apertamente di un regime "fallimentare" o perfino "prossimo alla caduta".

Così, i cittadini di ambedue i paesi hanno iniziato il 2012 in una situazione di estrema incertezza. Tante le domande che si pongono. Scoppierà di nuovo una guerra tra i due stati, o il conflitto di bassa intensità, sebbene devastante, si protrarrà a lungo? Cadrà il regime del Pcn? Se sì, quando? Le odiose ostilità tra i gruppi etnici del sud s'intensificheranno o saranno contenute? E che farà la comunità internazionale? Continuerà a placare il GoSS e a rabbonire il Pcn, o il suo interesse per i due paesi svanirà del tutto? Il presidente nordista Omar El-Bashir e i suoi tre colleghi ricercati dalla Corte penale internazionale (Cpi) finiranno in un'aula del tribunale dell'Aia? Saprà il GoSS guadagnarsi la stima dei molti sud-sudanesi che ancora lo considerano "esoso e autoritario"?

Scontri etnici

In Sud Sudan, uno dei fattori che hanno portato agli scontri armati nella contea di Pibor, nell'est dello stato di Jonglei, è stato il massiccio ritorno in patria. Mentre le famiglie arrivate dal Nord Sudan sono per lo più povere e prive di tutto, quelle provenienti dall'estero, in particolare dal Canada e dagli Usa, sono relativamente ricche, se paragonate agli altri sud-sudanesi. Le improvvise iniezioni di fondi (aiuti esteri e investimenti) in un'economia fino a ieri di sussistenza hanno arricchito alcuni sud-sudanesi, contribuendo a fare impennare il prezzo del bestiame. Non è un caso che il conflitto in corso nello stato di Jonglei sia tra i nuer e i murle, due gruppi di allevatori. I prezzi alti di vacche e tori incoraggiano le razzie di bestiame e gli scontri a fuoco per l'accaparramento di pascoli. Se a ciò si aggiunge il fatto che molte etnie nomadi del sud hanno una cultura (dalla poesia alla teologia) incentrata sul bestiame, si hanno tutti gli ingredienti per un potenziale conflitto, in una società che ha vissuto per 50 anni in guerra, con armi disseminate ovunque. Poiché i giovani hanno bisogno di bestiame per pagare la dote delle ragazze che vogliono sposare, ecco che la guerra diventa un'opzione per chi già si ritiene escluso dalla frenetica corsa al soldo scoppiata nella capitale Juba.

Questi conflitti etnici sono per ora limitati a gruppi di allevatori. Ma evidenziano il senso di esclusione di molti sud-sudanesi. Uno scontro come quello avvenuto ai primi di gennaio – una milizia di 6mila giovani nuer dei gruppi lou e jikany, contro una milizia murle e militari della missione dell'Onu in Sud Sudan (Unmiss) – diventa di per sé una questione seria, a prescindere dal numero delle vittime (stimate in parecchie centinaia), dei villaggi distrutti e dei 60mila profughi. Per prima cosa, mette in luce che le decisioni del GoSS non hanno effetto sull'intero territorio. Il vicepresidente, Rieck Machar, ha tentato una mediazione, ma il suo essere un nuer non lo rende credibile ai murle. Per ora sembrano più efficaci le iniziative ecclesiali ecumeniche, guidate dall'arcivescovo anglicano Daniel Deng Bul Yal, anche se spetta solo ai politici decidere di condividere la ricca torta che viene spartita a Juba e che i leader delle milizie vogliono decisamente assaggiare.

Il GoSS può anche significare poco agli occhi della maggioranza dei sud-sudanesi che vivono nelle campagne, ma lo si vorrebbe almeno in grado d'impedire che una milizia di migliaia di persone armate si organizzi, o eventualmente di affrontarla e disperderla. Da mesi la gente dello stato di Jongley andava ripetendo che c'erano problemi nelle zone confinanti con l'Etiopia. Non è possibile dire con certezza se dietro ci fosse la mano di Khartoum. Ma per anni il Pcn ha appoggiato le milizie murle e altri gruppi dissidenti o mercenari del Sud Sudan (tra i quali quello del gen. George Athor Deng, ucciso il 19 dicembre scorso). La situazione odierna fa comodo a un regime islamista deciso a destabilizzare il Sud Sudan e a far fallire il suo giovane governo. Tutto ciò contribuisce a sciupare importanti risorse ed energie, indispensabili per affrontare le molte questioni legate all'Accordo di pace del 2005 rimaste irrisolte e che il Pcn ha sempre cercato di ingarbugliare. Khartoum è spesso riuscita a spiazzare il GoSS, al corto di persone con la necessaria esperienza diplomatica, nel gioco di convincere i governi esteri a continuare la loro politica di spartire le colpe in parti uguali.

Agp, i nodi irrisolti

Le questioni tutt'oggi irrisolte sono le stesse di un anno fa: il destino della regione di Abyei (i cui abitanti sono ancora in attesa del referendum promesso, anche se ora l'aspettano lontani dalle loro terre, da cui sono stati scacciati); lo status giuridico dei sud-sudanesi presenti in Nord Sudan; la delimitazione dei confini tra le due nazioni; il futuro degli stati del Kordofan Meridionale e del Nilo Azzurro, e gli accordi sulla spartizione delle risorse petrolifere. I negoziati proseguono a rilento sotto gli auspici dell'Unione africana (Ua). E se il regime di El-Bashir sembra riuscire a manipolare l'Ua in proprio favore, non c'è un solo altro sudanese pronto a scommettere sull'eventualità che questa arrivi mai a sfidare Khartoum: la sua campagna per impedire al presidente nord-sudanese di finire davanti alla Cpi l'ha resa ancora più invisa ai sudanesi.

Anche la Cina è lontana dall'essere popolare nei due paesi, e questo per le sue ripetute dichiarazioni di amicizia con il Pcn e la sua crescente presenza commerciale e industriale. Ovvio che Pechino non cerchi popolarità in Africa. Vuole qualcosa d'altro. A gennaio, una commissione del Partito comunista cinese ha cercato di rafforzare le relazioni sia con Khartoum che con Juba. L'obiettivo è mettere le mani sul petrolio sudanese. La Cina è il principale investitore, produttore e acquirente in Sudan ed è molto preoccupata. Gran parte del petrolio sudanese (la produzione sta calando, ma si mantiene sul mezzo milione di barili al giorno) si trova in Sud Sudan, mentre oleodotti e facilitazioni portuali sono in Nord Sudan. Accordi su contratti finanziari si sono mostrati difficili.

L'ottenimento dell'indipendenza aveva suscitato entusiasmo in tutto il Sud Sudan. Oggi quell'esultanza sta scemando, perché le tanto attese strutture educative e sanitarie stentano a nascere. Mentre la gente chiede sviluppo, cresce la corruzione. Il licenziamento di alcuni dinosauri dell'amministrazione, accusati di disonestà e inefficacia, pare aver portato un certo miglioramento, come pure alcuni processi ad alcuni corrotti. Ma non basta.

I leader dell'opposizione si lamentano e lo scontento aumenta, anche se per loro democrazia significa solo poter partecipare al banchetto delle risorse nazionali. Nessuno di essi sa offrire serie politiche alternative, per non parlare d'ideologie che vadano oltre il regionalismo e il tribalismo.

La "democrazia" di Khartoum

Di ideologia, invece, ce n'è molta in Nord Sudan, anche se i 22 anni di ininterrotto governo dell'ex Fratellanza musulmana sembrano aver indotto gli stranieri a dimenticarsi che il Sudan ha sempre avuto – e ha – un ampio spettro di partiti. Si va da importanti formazioni maggiori caratterizzate da ideologie religiose, quali il Partito nazionale Umma e il Partito unionista nazionale (Pun), ai comunisti, ai baathisti, ai piccoli partiti laici (noti come "Forze moderne"), per non parlare dei molti gruppi politici giovanili. Ci sono anche partiti su base regionale, specialmente nell'est del paese e in Darfur. Non manca, infine, un folto numero di fronti di liberazione, anche se a richiamare l'attenzione internazionale oggi è il Movimento di liberazione del popolo del Sudan/ Esercito-Nord (Splm/A-N), impegnato in una guerra a tutto campo contro il regime di Khartoum sui Monti Nuba e nello stato del Nilo Azzurro.

A livello militare, l'Splam/A-N non è nuovo. I suoi combattenti – circa 40mila – avevano combattuto al fianco dell'Spla di John Garang, alcuni dal 1983, e oggi sono pronti a rovesciare il regime di Khartoum. Ufficialmente, sono "nordisti", in quanto originari da regioni situate sul confine tra i due stati, ma appartenenti al Nord Sudan. La loro lingua è l'arabo e molti sono musulmani (in particolare tra i nuba).

La radicale novità dell'Splm/N sta nella sua volontà politica di rappresentare quello che definisce il "Nuovo Sud", intendendo tutti i popoli marginalizzati del Nord Sudan. I suoi leader dicono che non si tratta di una qualifica etnica (anzi, accusano Khartoum di giocare costantemente la carta razziale). I "marginalizzati" sono coloro che non stanno con il governo di Khartoum. E sono la maggioranza. Sono intimiditi, maltrattati e umiliati da una tirannia ultraventennale, e spesso senza cibo sufficiente per vivere. Non tutti, però, sono pronti a morire in nome della speranza di riuscire a rovesciare il Pcn. Che venderebbe cara la pelle.

Le alleanze dell'Splm/N

L'Splm/N, pertanto, è oggi impegnato a costruirsi una base politica e fare alleanze con altri partiti. Molto attivo è il suo segretario generale, Yasir Said Arman, che si candidò contro El-Bashir nelle elezioni presidenziali dell'aprile 2010, ritirandosi poco prima del voto, quando fu chiaro che lo scrutinio sarebbe stato truccato. Il presidente è Malik Agar Eyre, al comando delle sue forze nello stato del Nilo Azzurro, sua terra d'origine. Il suo vice è Abdel Aziz Adam El-Hilu, un nuba, capo politico e militare dell'Splm/A in Kordofan: nelle elezioni per il governatorato dello stato del 2 maggio scorso si è misurato con il governatore, Ahmed Mohamed Aroun (ricercato dalla Cpi), ma è stato dichiarato sconfitto, dopo essere stato a lungo in vantaggio nella conta dei voti; una decisione che ha scatenato il conflitto armato in corso.

L'ultima mossa importante dell'Splm/N è stata allearsi con i tre principali gruppi ribelli attivi in Darfur: il Movimento per la giustizia e l'uguaglianza (Jem), oggi guidato da El-Tahir El-Fakir, dopo che il suo leader storico, il 53enne medico Khalil Ibrahim Mohamed, è morto sotto un bombardamento aereo di Khartoum il 23 dicembre scorso; e le due fazioni del Movimento di liberazione del Sudan (Slm), guidate da Abdel Wahid Al-Nur e da Minni Arkou Minnawi (che ha abbandonato il governo). Il nuovo organismo politico e militare si chiama Fronte rivoluzionario del Sudan (Srf ). L'accordo sarebbe stato sottoscritto il 12 novembre. In un documento comune, i gruppi ribelli si sono impegnati a «rovesciare il regime di El-Bashir con mezzi politici e militari». La decisione è condivisa da molti nord-sudanesi, anche se spaventa. Non è però piaciuta ai governi occidentali, africani e arabi, che si scordano facilmente delle violenze di Khartoum contro il suo popolo. In queste settimane, i leader dell'Srf, banditi dal Sudan, stanno visitando diverse capitali straniere in cerca di sostegno.

Prima o poi, l'Srf dovrà dialogare anche con gli altri partiti sudanesi. Questi, al momento, non si esprimono né a favore né contro. Tuttavia, esiste un accordo con alcune personalità di spicco di alcuni partiti. Tra queste, Nasr El-Din El-Hadi El-Mahdi, uno dei due vicepresidenti del Partito nazionale Umma (Dup), cugino dell'ex primo ministro Sadiq Al-Mahdi, ed El-Tom Haju, già candidato del Partito unionista nazionale a governatore dello stato del Nilo Azzurro e oggi comandante di una milizia in quella regione.

Sia Sadiq El-Mahdi che Mohamed Osman El-Mirghani, presidente del Dup, dialogano con il regime del Pcn (come hanno fatto per anni), benché si rifiutino di farne parte. Ma anche per loro le cose sono cambiate: nei loro partiti si registrano rivolte e proteste, soprattutto da parte dei giovani. Un'aria di cambiamento spira anche in Sudan, una nazione che si gloria di aver rovesciato due dittature militari attraverso rivolte civili. Nessuno sa predire quando il cambio avverrà. Ma è probabile che il domani si colori di sangue.

Fonte: http://www.nigrizia.it/
16 Febbraio 2012

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