Sri Lanka, Rajapaksa ancora Presidente


Junko Terao


Previsioni disattese, nessun testa a testa tra i due sfidanti: Rajapaksa ha vinto con il 58% contro il 40% dell’avversario, Sarath Fonseka. Una giornata senza spargimento di sangue ma ad alta tensione.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Sri Lanka, Rajapaksa ancora Presidente

Con un’imprevista valanga di voti, secondo i dati ufficiali il 57,8 %, gli srilankesi hanno confermato presidente Mahinda Rajapaksa, assicurandogli altri sei anni di potere. Il piano dell’eroe della guerra contro le tigri tamil è perfettamente riuscito, perfino meglio di quanto lui stesso probabilmente si aspettasse. Gli elettori sono andati in massa alle urne – ha votato circa il 70% degli aventi diritto – ma, diversamente dalle previsioni della vigilia che indicavano un testa a testa in cui decisivo sarebbe stato il voto dei tamil, per l’avversario di Rajapaksa, Sarath Fonseka, non c’è stata partita. Ancor prima che arrivassero i risultati ufficiali, il vincitore ha messo le cose in chiaro con una prova di forza che ha creato ore di tensione: il Cinnamon Lakeside Hotel di Colombo, da dove Fonseka e i leader dell’opposizione seguivano lo spoglio delle schede, è stato circondato da un centinaio di militari con la scusa che 400 dissidenti dell’esercito si trovavano all’interno dell’albergo. Nessuna traccia degli ammutinati, secondo un portavoce dell’opposizione, solo il tentativo di intimidire l’avversario e, probabilmente, di cominciare a fargli pagare le rivelazioni scottanti fatte a dicembre. In un'intervista al quotidiano Sunday Leader, Fonseka aveva parlato delle esecuzioni sommarie dei guerriglieri tamil che si erano arrese impartiti a sua insaputa dal ministro della difesa, Gothabaya Rajapaksa, fratello di Mahinda. Nonostante anche l’ex generale dell’esercito avesse guadagnato popolarità durante l’offensiva finale contro l’Ltte (Tigri di liberazione del tamil eelam), la maggioranza singalese ha premiato la linea dura e decisa del presidente nazionalista, che aveva già vinto nel 2005 grazie alla promessa di mettere fine a una guerra civile durata ventisei anni. Mantenuta la parola, Rajapaksa ieri ha incassato il riconoscimento a cui aspirava dallo scorso autunno, quando aveva indetto il voto con due anni di anticipo per sfruttare il successo di una guerra combattuta senza esclusione di colpi. Un annuncio talmente tardivo da non lasciare il tempo a molti osservatori esterni – vedi Unione europea e Nazioni unite – di organizzare missioni di monitoraggio elettorale. Gli osservatori indipendenti presenti nel paese non hanno indicato brogli diffusi su tutto il territorio, tali da indicare un ribaltamento del risultato, ma hanno segnalato il ruolo intimidatorio giocato dalle violenze diffuse durante tutta la campagna elettorale e nei giorni a ridosso del voto. Per non parlare dell’utilizzo improprio da parte del governo di fondi pubblici e dei media statali, letteralmente invasi dalla campagna di Rajapaksa. Reporter sans frontieres ha fatto sapere che il 98,5% delle notizie riguardavano il presidente. Come già annunciato giorni fa, il commissario elettorale Dayananda Dissanayake ha confermato l’intenzione di "dimettersi al più presto”: troppe le pressioni ricevute da tutte le parti politiche, “chiedo di essere messo in pensione prima possibile”, ha dichiarato. Riferendosi alle irregolarità, Fonseka, che solo recandosi alle urne ha scoperto di non essere iscritto nei registri elettorali e di non poter votare, ha annunciato un’azione legale per contestare il risultato. Infarcito di retorica il discorso con cui Rajapaksa ha “accettato il volere del popolo”: “Un risultato sorprendente, prova che gli srilankesi sono consapevoli del processo democratico e che adesso potremo tutti insieme costruire il paese”. Evidentemente, per la maggioranza dei singalesi, i mezzi con cui il “processo democratico”, come Rajapaksa chiama la vittoria contro le tigri tamil, è stato finora portato avanti sono leciti. Nulla hanno pesato i settemila civili tamil massacrati negli ultimi mesi di guerra, i centomila sfollati che vivono ancora nei campi controllati dai militari e che non hanno potuto votare perché non era stato organizzato il collegamento tra i campi e i seggi, gli altri 150mila trasferiti dai campi ai centri di accoglienza. Nessuno ha trovato antidemocratico che nessun giornalista fosse ammesso nel nord, mentre l'esercito bombardava la "no fire zone" in cui erano intrappolati 250mila civili. Come tacitamente accettati sono stati finora gli asassinii o i rapimenti impuniti dei giornalisti critici nei confronti del governo. L’affluenza nel nord del paese, a maggioranza tamil, è stata bassissima. Solo il 30% degli aventi diritto, di cui la maggior parte ha votato Fonseka, nonostante fosse l’artefice materiale delle operazioni militari contro le Tigri, pur di mandare a casa Rajapaksa. L'alta astensione dei tamil, come nel 2005, quando l'Ltte li aveva spinto a boicottare le elezioni, è stata decisiva. Troppo poco invogliati dalla scelta tra mente e braccio di una guerra che ha lasciato devastate le regioni del nord e dell'est del paese e che ha dimostrato quanto poco contasse l'incolumità di una minoranza da sempre bistrattata. Se durante la campagna elettorale sia Rajapaksa che Fonseka avevano corteggiato gli elettori tamil promettendo una maggior integrazione nella vita politica e amministrativa del paese, cosa realmente farà da oggi in poi il rieletto presidente è tutto da vedere. Finita la guerra si dovrebbe aprire la strada per una soluzione politica della questione tamil, a cominciare dall'apertura di una commissione d'inchiesta indipendente su quanto è accaduto negli ultimi mesi di guerra. Questo chiedono da mesi le organizzazioni per i diritti umani, inclusa l'agenzia delle Nazioni unite che se ne occupa, senza però aver mai deciso per un'azione concreta. Su questo la comunità internazionale nei giorni scorsi è stata chiamata a intervenire dalla commissione di Dublino del Tribunale permanente dei popoli che ha individuato il governo e l'esercito di Colombo colpevoli di crimini contro l'umanità. Rakapaksa non vuol sentire ragioni, ormai si tratta di un capitolo chiuso, quello di una "guerra al terrore" che in quanto tale era necessaria.


Fonte: Lettera22 e il manifesto

27 gennaio 2010

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento