Somalia, sordi alle ragioni degli altri


Nino Sergi, segretario generale Intersos


Centinaia di migliaia in fuga da guerra, carestia, abbandono. Un conflitto interno che ha assunto una dimensione internazionale. Esistono le condizioni per una soluzione della questione somala aperta dal 1991?


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Somalia, sordi alle ragioni degli altri

E' riunito a Roma il Gruppo internazionale di Contatto per la Somalia (GIC) presieduto da Ahmedou Ould Abdallah, rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, con la partecipazione ad alto livello dell’Unione europea, dell’Unione Africana -naturalmente dell’Italia- e di altri Paesi che hanno un ruolo di rilievo sulla scena internazionale. Nel rileggere le dichiarazioni delle precedenti riunioni del GIC si resta colpiti dal divario tra la visione e l’azione internazionali e gli sviluppi della situazione in Somala. In occasione di questo nuovo incontro ci si chiede se siano stati proprio gli errori, le lentezze e le omissioni della comunità internazionale ad avere contribuito al prolungamento della crisi somala.
Spettava alle Nazioni Unite guidare e sostenere il processo di transizione e di rafforzamento a livello centrale, regionale e distrettuale delle istituzioni somale. I due responsabili Onu che si sono succeduti, pur essendo funzionari di valore e con un ottimo curriculum, non sono riusciti a adempiere al loro mandato. Anche la nomina del presidente Sharif Sheikh Ahmed, attraverso un percorso “unitario” guidato dall’Onu, ha portato alla formazione di un governo nato forte all’estero ma con deboli possibilità di crescita in patria.
Non aver consolidato le istituzioni, specie a livello regionale, ha favorito l’espansione sul territorio degli Shabab, i giovani mujaheddin. Ed è stata poi sottovalutata sistematicamente la loro forza. Eppure sin dal primo maggio del 2008, quando un improvvido missile statunitense uccise il loro capo militare, Aden Hashi Ayro, fu chiaro il segnale che sarebbe iniziata una campagna in grande stile degli Shabab. Rapimenti, uccisioni, attacchi alle agenzie e alle ong internazionali, una progressione impressionante di conquiste territoriali. E tutto si è consumato in una generale sottovalutazione del problema, preferendo circoscriverlo a un fenomeno di “criminalità sociale”.

A lungo si è discusso delle divisioni interne loro e degli altri oppositori. Ma il collante del fanatismo ha presto fatto passare in secondo piano ogni elemento dialettico interno e ha trasformato un iniziale processo di alleanza tattica -che si può fare risalire allo scorso febbraio- in un patto strategico che ha prodotto la risoluta offensiva del 7 maggio scorso. Forse non si è ancora capito che si sta combattendo una guerra per l'anima stessa della Somalia: da una parte i "veri stranieri" armati di un’ideologia nazi-islamica che vorrebbe sostituirsi ai valori fondanti dei somali con un'organizzazione politica e religiosa che non ha alcuna radice nella società; dall'altra un governo che dovrebbe difendere i valori della tradizione clanica e religiosa, ma che è l’erede degli errori delle precedenti amministrazioni e che le opposizioni identificano proprio con gli stessi interlocutori internazionali complici di quegli errori. È certo che la ‘questione  somala’ non è destinata a restare entro i confini del Paese: ciò che sarà la Somalia e le modalità con cui il suo futuro sarà definito avranno ripercussioni sull’intera area e oltre.
 
Quali i punti chiave su cui puntare?

– Un deciso impegno a mettere fine al conflitto etiopico-eritreo, che si combatte anche sul terreno somalo, dovrebbe essere una delle priorità di tutto il GIC per la Somalia. Esercitare, quindi, in ogni sede pressioni risolute e, se necessario, rimettere in discussione strategie e giochi geopolitici consolidati. Sarebbe importante inserire il tema nell’agenda dell’imminente G8.
– Puntare di nuovo al pieno coinvolgimento di tutta l’opposizione, escludendo soltanto chi manifestamente si richiama a pratiche qaidiste o terroristiche. Ascoltare e capire, per quanto arduo possa sembrare, le ragioni e le posizioni più politiche, di tipo nazionalistico, finché rimangono ancora vive sia in alcuni gruppi shabab sia nell’Hisbul Islam. A meno di volere insistere -a dispetto della lezione afgana- sull’uso della forza, con il risultato di radicalizzare il conflitto e prolungare le sofferenze della popolazione.
Una di queste posizioni puntava su una soluzione politica, tutta somala e non guidata o imposta dall’esterno. Anche se può apparire utopica o nascondere la volontà di ribaltare le influenze esterne, andrebbe presa in considerazione. In Somalia non può più essere esclusa alcuna opzione politica, anche quando potrebbe portare a soluzioni impensate e ritenute impossibili.
Il processo di transizione dovrebbe avere l’obiettivo di far nascere nuove istituzioni che includano quanti ne sono finora rimasti fuori, che siano accettate da tutti i somali e che siano definitive. Isolare ed escludere soltanto i gruppi realmente estremistici e legati al terrorismo, con un criterio che non sia ideologico, come è stato finora.
L’Italia è ancora considerata in Somalia, e a livello internazionale, Paese di riferimento. Anche se negli ultimi anni il ministero degli Esteri ha cercato di sostenere il processo di transizione, è mancata sia un’azione coordinata a livello ministeriale sia la traduzione degli impegni con azioni regolari di aiuto e di cooperazione per rafforzare le istituzioni nel loro compito primario di dare risposte ai bisogni della popolazione. Il progressivo taglio degli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo ha reso ancora più difficile ogni programmazione.
L’Italia ha agito in coordinamento con l’Unione europea e questo va a suo merito. Ma l’Europa avrebbe potuto avere un ruolo più incisivo quando si è trattato di prendere decisioni sulla situazione somala, anche in considerazione dei fondi che ha messo a disposizione per aiuti umanitari, servizi di base, ricostruzione e sicurezza. La nomina di un inviato speciale plenipotenziario avrebbe potuto far parlare l’Ue con una sola voce e sarebbe opportuna, a questo proposito, una correzione di rotta. 

Nino Sergi, segretario generale Intersos

Fonte: OngAgiMondo

editoriale giugno

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento