Saracha, Afghanistan, il villaggio dei “martiri”


Giuliano Battiston


Siamo andati nell’Afghanistan orientale a cercare i parenti dei cinque ragazzi uccisi il 4 ottobre dalle forze Isaf-Nato: l’attacco era mirato agli “insurgents” ma ha colpito dei civili. Chiedono giustizia.


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"Erano solo dei ragazzi. Non avevano fatto niente di male. Gli americani hanno ucciso degli innocenti”. Siamo andati nell’Afghanistan orientale, vicino a Jalalabad, a cercare i parenti dei cinque ragazzi tra i 10 e i 21 anni uccisi il 4 ottobre con un attacco aereo delle forze Isaf-Nato nel distretto di Beshud. Intervistati per la prima volta, sostengono che l’attacco era mirato agli “insurgents” ma ha colpito dei civili, come confermano al Manifesto le autorità locali. Chiedono giustizia.

Saracha è un villaggio di contadini del distretto di Beshud, alle porte di Jalalabad, la principale città della provincia orientale di Nangarhar, a due passi dal confine con il Pakistan. Per raggiungerlo si deve lasciare il congestionato centro della città, puntare verso sud-est e costeggiare le alte mura di cemento dell’aeroporto di Jalalabad, che ospita una base militare americana e include la Forward Operating Base Fenty, uno dei centri strategici della guerra: da qui partono molti dei silenziosi e micidiali droni diretti in Afghanistan e Pakistan; questa diventerà una delle basi principali degli americani, se la Loya Jirga afghana (il gran consiglio) accorderà l'immunità ai soldati a stelle e strisce per il post-2014, come chiesto dal segretario di Stato Kerry, pochi giorni fa a Kabul.

Superato l’aeroporto, continuando per un paio di chilometri, sulla sinistra si affaccia una stradina sterrata che porta a Saracha. Stretta tra due case, sembra una via chiusa, senza uscita, ma una volta imboccata si apre su campi rigogliosi, per poi passare accanto al cimitero del villaggio. Da qualche giorno, nel cimitero ci sono tre nuove tombe, tre cumuli di terra alti ricoperti di arbusti per evitare che i cani randagi scavino in cerca di carne non ancora decomposta. Lì sotto ci sono i corpi senza vita di Sahebullah, Wasihullah e Amanullah, tre dei cinque ragazzi uccisi a Saracha venerdì 4 ottobre da un attacco aereo dalle forze Isaf-Nato. Per i soldati stranieri erano “insurgents”, Talebani, pericolosi terroristi. Per gli abitanti di Saracha sono dei martiri, uccisi senza ragione. Così recita lo stendardo bianco su cui sono impressi i loro nomi, la loro età, i versetti del Corano.

Il luogo dell’attacco aereo
Wasihullah ed Amanullah erano fratelli. Vivevano in una casa in mezzo ai campi, a un chilometro dal cimitero, insieme ad altri quattro fratelli e a quattro sorelle. É una famiglia contadina, numerosa, quella di Qasim Hazrat Khan, il padre di Wasihullah e Amanullah. Mi viene incontro sudato, con un camicione marrone sgualcito, appiccicato alla pelle a causa dell’umidità. Mi conduce subito sul luogo dell’attacco aereo, in uno spiazzale dietro casa. Mi indica i posti dove ognuno dei ragazzi era seduto quella sera. Mostra sul terreno i fori dei proiettili. Ne conto almeno una ventina, lunghi una decina di centimetri, profondi. Raccolgo i resti di alcuni dei proiettili usati, pezzi di metallo deformati dall’esplosione. I colpi sono arrivati fin quasi alla casa. Quello più vicino alle mura è ai piedi di una balla di fieno, davanti a una tettoia sotto la quale una mucca, due vitellini e qualche gallina spelacchiata si proteggono dal sole. “Questa è la nostra casa, la nostra vita. Siamo gente che lavora la terra. É un posto tranquillo, pacifico, questo”, ripete Qasim Hazrat Khan, che ancora non si capacita di quel che è successo.

Le vittime: cinque ragazzini
Ci sediamo dall’altro lato della casa, su tre letti con le corde intrecciate, addossati alle pareti esterne. Qasim Hazrat Khan racconta di quella sera, dei suoi figli. Amanullah aveva 21-22 anni (da queste parti l’anagrafe non esiste, nei villaggi molti non hanno carta d’identità). Aveva studiato fino all’ultima classe delle ‘superiori’, la dodicesima, poi si era messo a lavorare (il padre mostra un tesserino secondo il quale Amanullah lavorava per le forze governative afghane, dal 4 marzo 2013). Era sposato e aveva tre figlie. Suo fratello Wasihullah aveva 10 anni, frequentava il quinto anno in una scuola del villaggio di Samarkheel, poco distante. Quella sera era contento perché c’era anche un suo amichetto, Sahebullah, un ragazzino di 14 anni. Sahebullah era andato a scuola fino alla settima classe, ma da qualche mese “stava facendo un apprendistato in un’officina di Jalalabad per imparare il mestiere di fabbro”. A raccontarmelo è Nader Shah, suo fratello. Ha 35 anni, indossa un abito marrone, in testa ha il tradizionale cappello pakul. Viene a sedersi insieme a noi, porta con sé la foto incorniciata del fratellino: “prima che Sahebullah jan morisse, eravamo 9 fratelli e una sola sorella”, spiega, senza riuscire a trattenere le lacrime.

Con i fratelli Wasihullah e Amanullah e l’amichetto Sahebullah, quella sera c’erano altri due ragazzini: Asadullah Delsos e Gul Nabi. Il primo, cugino dei due fratelli, “14 anni, aspettava che gli crescessero i baffetti sulle labbra”, mi dicono; l’altro, racconta Qasim Hazrat Khan, “era un ragazzino di 15 anni, la cui famiglia si è trasferita qui da Pachir, nel distretto di Khogyani. Da un po’ di tempo lui faceva il carpentiere a Kabul, ma tornava ogni volta che bisognava lavorare la terra”.

L’attacco delle forze Isaf-Nato
La sera di venerdì 4 ottobre, sul piazzale aperto alle spalle della casa di Qasim Hazrat Khan c’erano tre ragazzini sui 15 anni, un ragazzo di 21 e un bambino di 10. Avevano passato la serata “a sparare agli uccelli con dei badì (fucili da caccia, ndr). Da queste parti è normale, lo abbiamo sempre fatto. Non erano mica degli yaghì (ribelli, ndr) i miei ragazzi”. Poi, improvvisamente, gli spari dall’alto, ricorda Qasim Hazrat Khan. “Erano le 21.40-22 quando ho sentito la prima di tre lunghe sequenze di spari. Stavo dormendo e mi sono alzato. Sono seguiti dei minuti di silenzio. Sono salito sul tetto per vedere meglio. Ho visto almeno due elicotteri e, più in lontananza, gli aerei senza pilota. Poi c’è stata una seconda sequenza di spari. I bambini hanno cominciato a piangere. Ho spinto dentro quelli che erano saliti sul tetto. Sono risalito. Vedevo solo le luci rosse sul terreno sotto casa”.

Fonte: Il Manifesto
17 ottobre 2013

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