Quella sedia vuota a Oslo


Roberto Reale


Nè Liu, né la moglie (agli arresti domiciliari) sono potuti arrivare a Oslo per la consegna del Premio. Un’assenza più dirompente di qualsiasi discorso di circostanza.


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Quella sedia vuota a Oslo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma come può una sedia vuota rappresentare un pericolo per quella che molti ritengono la maggiore potenza economica di questo secolo? Come è possibile  che faccia tanta paura un uomo solo, condannato a undici anni di prigione per aver espresso delle critiche al partito al potere? Sono le domande rimbalzate oggi da Oslo nella, per molti aspetti straordinaria, cerimonia di assegnazione del premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo, dissidente e intellettuale  cinese da tempo privato della libertà dal regime di Pechino. Il momento più toccante della giornata, per una volta meno retorica del solito, è stato quando il Presidente del Comitato ha deposto il diploma e la medaglia collegate al Premio appunto su una sedia vuota. Nè Liu, né la moglie (agli arresti domiciliari) sono potuti arrivare a Oslo. Un'assenza più dirompente di qualsiasi discorso di circostanza, riempita soltanto da una grande foto.

Liu ha potuto far conoscere il suo punto di vista solo grazie alla lettura di un testo da lui redatto nel 2009. Non ho nemici, diceva Xiaobo, sono stato condannato anche se la  Costituzione cinese riconosce all'art 35 il rispetto dei diritti umani, mi accusano di sovversione ma io ho espresso solo opinioni, si dice che ho raccontato falsità ma io ho solo rivendicato il diritto a esprimere delle idee. Xiaobo precisava pure che un pensiero critico non significa voler "sovvertire i poteri dello stato", la sua dimensione  critica verso il regime è assolutamente pacifica, non violenta, attenta a non voler compromettere la stabilità di un grande paese come la Cina. Eppure è stato condannato a unidici anni per aver scritto sei articoli. In una nazione dove la crescita economica ha prodotto pure consenso sociale al regime, Xiaobo e uno sparuto manipolo di dissidenti fanno paura. Si torna così alla domanda iniziale. La reazione di Pechino all'assegnazione del Nobel, nervosa e emotiva,é un segno di forza o di debolezza? Oggi si è avuta la fortissima sensazione che se le autorità di Pechino vorranno valorizzare fino in fondo il peso che ormai hanno nella economia mondiale, se vorranno far crescere il loro peso a livello internazionale, allora dovranno finalmente fare i conti con queste contraddizioni. Non si può temere un uomo che scrive sei articoli e poi voler essere leader a livello planetario.E proprio di paura si tratta: i dirigenti attuali del partito comunista cinese pensano che sia possibile solo uno sviluppo totalmente controllato dall'alto nel loro paese. Il problema è che così dimostrano di non riuscire a fare un salto di qualità. Forse i cambiamenti arriveranno nel prossimo futuro con un ricambio generazionale fra gli uomini al potere a Pechino. La svolta è matura. Anche le assegnazioni di altri Nobel per la pace sembravano in passato rappresentare un'utopica fuga in avanti. Ricordiamo per tutte quella riguardante  Nelson Mandela. Poi si è visto quanto invece la scelta fosse stata lungimirante. Il cambiamento in Cina arriverà, potrà anche essere pilotato, ma è importante che  Liu Xiaobo, Hu Jia e gli altri tornino in libertà. Sarà questo il segno vero che a Pechino il potere si è realmente consolidato. La speranza è che questo accada presto, per il bene di tutti, nostro ma soprattutto della Cina.

Fonte: Articolo21

10 dicembre 2010

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