Primavera talebana


Giuliano Battiston


Dopo la pausa invernale la guerriglia sta tornando all’offensiva.


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Primavera talebana

Kabul – In Afghanistan, il movimento dei Talebani torna a farsi sentire. E annuncia nuovi, clamorosi colpi, dopo quelli messi a segno nei giorni scorsi: due giorni fa, la fuga di 476 prigionieri politici, tra cui 100 comandanti di medio-alto livello, dalla prigione Sarposa, a Kandahar, roccaforte della guerriglia. Un piano costruito con cura: secondo Qari Yousuf Ahmadi, tra i portavoce dei Talebani, la realizzazione del tunnel sotterraneo di 320 metri sarebbe andata avanti per cinque mesi. Il risultato, un vero “disastro” – ha commentato alla BBC l’ex parlamentare Daoud Sultanzai – che dimostra la “porosità del nostro sistema di sicurezza”, nonostante le misure introdotte nella prigione dopo la fuga di mille prigionieri nel giugno 2008. Il 18 aprile c’è stato invece l’attacco al Ministero della Difesa di Kabul, dove un attentatore con uniforme militare ha ucciso due persone e ne ha ferite sette; qualche giorno prima a rimetterci la pelle era stato il capo della polizia di Kandahar, Khan Mohammad Mojahid. E la lista potrebbe continuare a lungo.

Dopo la pausa invernale, i Talebani stanno dunque tornando all’offensiva. E dimostrano di poter colpire quasi ovunque, a dispetto di quanto sostenuto dal generale Josef Blotz, portavoce a Kabul delle forze Isaf, secondo il quale gli attacchi verso civili e funzionari governativi dimostrerebbe che “gli insorti non sono in grado di sfidare apertamente le forze afghane e Isaf”. Ma quella dei turbanti neri è una strategia del “mordi e fuggi” che non punta allo scontro diretto. E che si affida piuttosto ai vantaggi di una guerra asimmetrica per compiere attacchi dal significato politico e mediatico, prima ancora che militare. E per inviare messaggi importanti in una fase politicamente molto delicata: alcune settimane fa Karzai ha annunciato le sette aree che già a luglio passeranno sotto il controllo afghano: oltre a Kabul, al sud la città di Lashkar Gah, capoluogo della provincia dell’Helmand; al nord Mazar-e-Sharif, provincia di Balkh; a ovest Herat, nell’omonima provincia; e poi ancora Mehterlam, nella provincia di Laghman, nell’est del paese, e le province del Panjshir e di Bamiyan, da sempre ostili al movimento dei turbanti neri. Secondo il generale maggiore John Lorimer, portavoce del ministero della Difesa brittanico, oggi l’obiettivo primario dei seguagi del mullah Omar sarebbe proprio destabilizzare con “attacchi spettacolari, su larga scala” il processo di transizione, che prevede il graduale passaggio della sicurezza dalle truppe Isaf-Nato all’esercito afghano. Un processo difficile, a cui vari attori attribuiscono significati e speranze diverse, nota Antonio Giustozzi, tra i più autorevoli studiosi di Afghanistan, di nuovo Kabul per ricerca sul campo. Per gli europei è l’occasione di sfilarsi da una guerra che si sta perdendo e che non è la loro; per gli americani e per la Nato l’ultima occasione per trovare la quadratura del cerchio: lasciare il paese senza perdere la faccia e costruire un consenso con i partner regionali sui futuri assetti politico-diplomatici dell’area. Non è un caso che giovedì scorso lo stessso segretario alla Difesa americano, Robert Gates, in un colloquio con i giornalisti abbia detto di considerare il 2011 come un “anno critico”, prevedendo un “incremento del livello di violenza nelle prossime settimane” ma sfoggiando una fiducia nel successo delle sue truppe poco giustificata. Quanto al presidente afghano, spera che con la transizione possa riconquistare una sovranità sul proprio esercito mai del tutto goduta, ed è consapevole dell’importanza del momento: l’Afghanistan “'sta attraversando una fase molto importante della sua storia, con la definizione di un accordo strategico con gli Stati Uniti e con gli sforzi di pace a cui contribuisce anche il Pakistan”, ha dichiarato pochi giorni fa. E di Pakistan non si fa che parlare nei salotti della diplomazia e sui media.

Il 16 aprile Karzai ha annunciato l’istituzione di una commissione congiunta tra Afghanistan e Pakistan. A farne parte, pezzi grossi dell’establishment pakistano, dal primo ministro, Yusuf Raza Gilani, al capo dell’esercito, Ashfaq Pervez Kayani, per finire al direttore generale dell’ISI, il temuto servizio di sicurezza, Ahmed Shuja Pasha. Mentre dal lato afghano è prevista anche la partecipazione di Burhanuddin Rabbani, oggi a capo dell’Alto consiglio di pace voluto da Karzai per negoziare la riconciliazione con i Talebani. Compito della commissione bilaterale, avallata dagli Stati Uniti, portare la pace in Afghanistan. La nuova iniziativa diplomatica è stata ben accolta dalla stampa vicina a Karzai e da quella pakistana. Ma come fa notare l’analista politico Fabrizio Foschini, ricercatore di Afghanistan Analysts Network, non sono mancate le voci critiche, fin troppo puntuali. Nel complicato schacchiere politico locale, non tutti hanno visto di buon occhio il progressivo avvicinamento di Karzai al Pakistan cominciato nel 2009, quando il presidente afghano, perduto l’appoggio degli alleati occidentali, ha provato a compensarlo con un’apertura di credito ai paesi non-Nato. Nel corso degli ultimi due anni, sarebbero diverse le mosse fatte per accontentare il “paese di puri”, tra cui la nomina di funzionari graditi ai pakistani ai vertici dell’esercito, dei servizi e della diplomazia, inclusa quella di Mohammad Anwar Anwarzai come ambasciatore a Islamabad. Così, subito dopo l’annuncio della nuova Commissione bilaterale, sulla stampa sono prontamente uscite le presunte condizioni che il Pakistan avrebbe imposto: una supervisione su tutti gli accordi militari con Stati Uniti e Nato; una consultazione sulle nomine più delicate; un coinvolgimento nell’addestramento delle forze di sicurezza afghane; un ruolo di primo piano nella riconciliazione coi Talebani; un limite alle attività del consolato indiano di Kabul (tra pochi giorni è prevista la visita in Afghanistan del primo ministro indiano M. Singh, dopo cinque anni di assenza). A insistere criticamente sulla presunta perdità di sovranità del paese è anche il principale sfidante di Karzai alle scorse elezioni presidenziali, Abdullah Abdullah. Durante un viaggio di dieci giorni negli Stati Uniti, oltre a ribadire che “il governo Karzai è diventato parte del problema, non la soluzione”, l’ex ministro degli Esteri è tornato sulla storia dei soldi con cui gli iraniani sostengono Karzai, affermando che i pagamenti, sostanziosi, sarebbero iniziati nel 2003.

Ma se gli antagonisti di Karzai puntano sul tasto dell’eccessiva permeabilità del presidente alle interferenze esterne, la comunità internazionale si mostra ormai convinta che la pace non potrà che nascere da un accordo regionale. Lo ha scritto, in un articolo recente per il New York Times, l’ex segretario di stato brittanico per gli Affari Esteri, David Miliband, per il quale un accordo politico interno non potrà avere luogo prima di un accordo regionale. E lo sostengono, più o meno apertamente, anche gli altri attori di primo piano coinvolti nel conflitto. La Casa Bianca ha reso pubblico di recente un rapporto in cui critica l’inefficacia degli sforzi anti-terrorrismo del Pakistan; un’accusa rincarata dall’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori congiunti statunitensi, che il 20 aprile in un’intervista al quotidiano Dawn ha attribuito senza mezzi termini ai servizi pakistani “una relazione di lunga data” con il network di Jalaluddin Haqqani, affiliato alla galassia talebana. Ma le accuse di promiscuità con i movimenti antigovernativi sono puro protocollo. Anche al Pentagono si è certi infatti che il Pakistan è indispensabile in qualunque negoziato. Un negoziato che pare finalmente appoggiato anche dagli Stati Uniti. In un discorso del 18 febbraio presso l’Asia Society di New York, la stessa segretario di Stato Hillary Clinton ha parlato della necessità di un “responsabile processo di riconciliazione”, lasciando intendere che sia il tempo di rinunciare alle pre-condizioni fin qui stabilite. E assicurando che gli Stati Uniti hanno lanciato, parallelamente a quello militare, “un surge diplomatico, per spingere il conflitto verso un esito politico che rompa l’alleanza tra i Talebani e Al-Qaeda, per chiudere con la guerriglia e aiutare a produrre non solo un Afghanistan più stabile ma una regione più stabile”. Mentre i Talebani continuano con la guerriglia e si apprestano alla micidiale “campagna estiva”, le cancellerie occidentali cominciano ad attribuirgli una patente di legittimità politica. Terroristi, dunque, ma sempre meno, e fino a quando non si troverà un vero accordo.

Fonte: Lettera22, il Riformista

26 aprile 2011

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