Piccoli trafficanti crescono


Francesco Vignarca - www.vignarca.net


L’Italia torna ad essere crocevia del commercio di armi. Un’attività che ormai non è più appannaggio delle sole grandi organizzazioni criminali.


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Piccoli trafficanti crescono

 

 

 

 

 

 

 

 

I pacchi in viaggio dalla Polonia contenevano 13 mitragliatori (tipo Scorpion, Kalashnikov, Uzi e Pm), 4 revolver, 4 pistole corte e 10 chili di tritolo. Sono stati fermati a metà novembre da un’operazione condotta dalle autorità italiane su segnalazione della polizia di Varsavia; gli italiani credono si tratti di un traffico illecito destinato al mercato dei collezionisti, mentre per i polacchi -visto il carico e, soprattutto, la quantità di esplosivo ritrovato- quello bloccato è un commercio illecito tra organizzazioni criminali.
L’Italia sembra essere tornata un crocevia del traffico internazionale di armi, come lo era negli anni 80: la posizione geografica e la presenza diffusa di criminalità anche organizzata favorisce sul nostro territorio l’attività di gruppi (anche piccoli) dediti alla compravendita illegale di armamenti.
Una vicenda più di tutte però aiuta a comprendere i rinnovati meccanismi del traffico di armamenti sul suolo italiano. È quella messa in luce dall’inchiesta della Procura di Perugia, diretta dal sostituto procuratore Carlo Razzi, che ha visto il rinvio a giudizio di cinque persone, già poste sotto arresto all’inizio del 2007.
Il procedimento ora è alla vigilia della fase dibattimentale, e si riferisce a fatti svolti per tutto il 2006. La dimensione della compravendita al centro della vicenda, le cui trattative sono giunte ad una fase avanzata prima di essere bloccate dagli arresti, fa impressione: oltre 500mila mitragliatori automatici (nella foto a destra) e più 10 milioni di munizioni dovevano prendere la volta della Libia dopo essere stati prodotti in Cina. La fornitura finale avrebbe raggiunto il valore complessivo di circa 41 milioni di dollari. Ma l’affare avrebbe avuto poi un ricarico del 60% versato agli italiani come commissione. Valore finale dell’operazione: 65 milioni di dollari. Ecco come si è svolta.
Le indagini della magistratura e dei carabinieri, che hanno preso avvio da una figura minore del gruppo di indagati posta inizialmente sotto controllo per fatti di droga, hanno messo in luce uno schema non molto articolato o raffinato, ma con una propria dose di efficacia. I numeri in gioco, molto alti per una partita di armi leggere, hanno messo in moto in particolare una coppia di faccendieri provenienti dallo spezzino e dalla lucchesia. Attraverso due società con sede a Malta a loro riconducibili i due avrebbero procurato ai propri contatti libici una serie di preventivi riguardo il tipo di armamento richiesto. Come fornitore la scelta cade sulla cinese Norinco, colosso internazionale che nel proprio catalogo (visibile in rete) propone dalle piccole armi ai missili anti-carro ai sistemi anti-missile. Per assicurarsi la commessa sarebbero stati messi in campo anche metodi artigianali, come le falsificazioni di preventivi (emessi a nome di altre società fittizie) per poter dimostrare di avere in mano l’offerta migliore, ma anche la leva forte della corruzione sistematica di diversi elementi chiave della catena libica di approvvigionamento militare. I bonifici corruttivi sarebbero stati sempre eseguiti attraverso le società maltesi.
A questo punto nell’affare -secondo la ricostruzione operata dalla magistratura- si inserirebbe una figura-chiave. Si tratta di Vittorio Dordi, allora titolare in Italia di un’azienda di “fornitura impianti” (la Textile srl con sede in provincia di Parma) e direttore generale della Gold Rock Trading ltd con sede a Cipro, ma con ufficio di rappresentanza a Pontetaro (Pr). Anche Dordi è oggi inquisito ed è difeso dall’avvocato (e parlamentare) Giulia Bongiorno. La Gold Rock si occupa della vendita di ogni tipo di armamento, incluso esplosivi, arerei militari, navi da guerra ed altro. In particolare la società promuove la vendita di prodotti della società Tam (Tbilisi Aviation Manufacturing) di Tblisi, che produce aerei Sukhoi Su-25, e della società MI-Helicopters con sede a Kazan (Russia) che produce elicotteri “MI” con le quali la Gold Rock ha fondato nel 2002 una nuova società chiamata Aerosonic ltd. Proprio la Gold Rock sarebbe stata utilizzata per il recapito dalla Cina di alcuni campioni dei mitragliatori oggetto della commessa (3 Kalashnikov con impugnatura singola e 3 con doppia impugnatura, completi di 18 caricatori), campioni richiesti dai libici prima della conclusione definitiva dell’affare. In tutte queste fasi vi sarebbe stata una pressante e continua richiesta di tangenti e di spartizione del 60% di ricarico sul prezzo da parte dei contatti libici, il che conferma le stime di diversi studi sull’alto tasso di corruzione presente in tutto il commercio di armi. Secondo gli ultimi dati gli armamenti costituiscono il 2% del commercio mondiale ma sono responsabili di circa il 50% delle tangenti complessive.
Ma a che cosa dovevano servire tutte queste armi? Probabilmente, vista la tipologia antiquata e il sovradimensionamento rispetto ai numeri dell’esercito libico, avrebbero preso altre vie, andando a foraggiare conflitti africani. Un metodo semplice ed efficace che avrebbe infatti spinto il gruppo dei cinque indagati a cercare diverse commesse (elicotteri, visori notturni) in altre parti del mondo.
Gli investigatori hanno intercettato numerose comunicazioni concernenti la Lituania, la Russia, la Repubblica Ceca, il Congo, Israele, la Turchia, la Cina, la Francia, lo Sri Lanka. Di particolare rilievo risulta la trattativa per una commessa di 50.000 fucili Akm, 50.000 fucili Akms e 5.000 mitragliatrici Pkm di fabbricazione russa con un intermediario bulgaro da fornire all’Iraq tramite un sedicente rappresentante del governo irakeno quale acquirente. Un affare da 40 milioni di dollari di cui le autorità irachene e il comando Usa a Baghdad non erano ovviamente a conoscenza.
L’interesse di questa vicenda sta anche nei flussi finanziari legati alla compravendita di armi. I proventi e le tangenti legate agli affari che il gruppo di faccendieri cercava di mettere in piedi sono ovviamente stati oggetto di tentativi di occultamento, vista la delicatezza delle somme, ma con meno accortezza quando si è trattato delle tangenti ai referenti libici. I bonifici per queste avrebbero avuto quasi sempre origine da banche maltesi legate alle società già citate, ma spesso sarebbero stati indirizzati su conti su banche italiane dei prestanome libici (Banca popolare di Vicenza) oppure su conti di familiari degli indagati per il pagamento delle loro prestazioni (Banca Carige, Intesa). Anche i pagamenti ai cinesi per i primi mitragliatori campione sembrano transitare in parte dalla Banca di Roma, anche se alla fine la fornitura sarebbe stata saldata con un bonifico effettuato direttamente verso la Cina. Risulta quindi che i contatti libici utilizzassero per diversi pagamenti di tangenti (sia riferite a questa compravendita che probabilmente ad altre precedenti) le banche italiane, allo stesso modo con cui vengono utilizzati conti correnti svizzeri dalle società controllate dagli indagati. Richieste di rogatoria dell’autorità italiana sono state accolte dalla Svizzera proprio relativamente a conti correnti collegati a società degli indagati, che si sono visti respingere dai giudici svizzeri due ricorsi miranti a bloccare tale acquisizioni. Inoltre le autorità svizzere, senza che questo fosse richiesto dalla Procura di Perugia, hanno disposto il blocco di tali conti (e di quelli creati appositamente dopo gli arresti per spostare i fondi) sospettando che le ingenti somme depositate avessero origine da precedenti affari legati al traffico di armi. I conti correnti sono riconducibili a diverse persone fisiche e giuridiche e sono domiciliati su banche a Ginevra e in Canton Ticino. Uno di questi conti, sul quale i magistrati italiani sospettano possano essere state versate o transitate somme legate alla corruzione, è domiciliato presso una filiale di Manno (Ch). A quanto ci risulta, in questa località gli unici sportelli presenti sono quelli dell’Ubs, una dei maggiori istituti svizzeri.
Lo svolgimento del processo potrebbe essere di grande aiuto nello svelare i meccanismi che permettono la gestione di traffici di armi anche dal nostro Paese. Ma a causa di alcuni buchi nella legislazione italiana esiste la possibilità che gli indagati trovino una scappatoia, nonostante i diversi elementi di prova raccolti nell’inchiesta. Cosa che è avvenuta ad esempio nel caso di Leonid Minin, arrestato nel 2000 a Cinisello Balsamo con droga, diamanti e diversi documenti comprovanti il suo coinvolgimento nel traffico di armi verso Paesi africani posti sotto embargo, detenuto presso il carcere di Vigevano ma rilasciato nel settembre 2002 a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione che annullava, per difetto di giurisdizione, l’ordinanza di custodia cautelare. Un difetto generato dal fatto che la perseguibilità di tali condotte non è normato dalla legge 185/90 sull’export di armi, ma sulla base della 497/74, che ha finalità di prevenzione e di repressione della circolazione illegale delle armi in Italia ma non contempla il commercio di armamenti da guerra tra Stati esteri mediante “triangolazione”

Fonte: Altreconomia

27 gennaio 2009

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