Oltre l’atterrito guardare: qual è la nostra parte?


Davide Rondoni


L’immane catastrofe di Tacloban. ​Cosa fare, ma ancora prima, cosa pensare… O forse nemmeno a pensare si riesce…


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agifilippine

Cosa fare, ma ancora prima, cosa pensare… O forse nemmeno a pensare si riesce. Dove, come organizzare una riflessione? Forse più giù nella gola o dove si forma il magone, nel cuore, si riesce a muovere qualcosa che non sia solo un atterrito guardare. Cosa fare o pensare dinanzi alla immane catastrofe di Tacloban, dove cause naturali, inadempienze e disattenzioni portano morte e panico in mole così sterminata? Ci sono modi diversi di reagire. Ci sono modi diversi di affrontare quanto accade, specie quando accadono cose, come questa, nelle Filippine, che colpiscono l’attenzione di tutti. Sì, ci sono tanti modi. Ma quello più giusto è chiedersi: e ora quale è la mia parte? In questo teatro strano e drammatico che è il mondo quale è la mia parte?

Se non ci si fa questa domanda, cruda, essenziale, gli altri unici atteggiamenti di fronte a una così immane sventura che accade, per così dire, nella zona lontana del palco, nella zona periferica, sono due: la bestiale disumana indifferenza, quella per cui dopo un’occhiata che pur si riempie di lacrime si tira dritto uguali a prima. Oppure, l’altro atteggiamento che investe chi non si chiede davvero quale sia ora la propria parte è l’allargare le braccia, il fatalismo, il dire che va bene, la sventura è una giostra impazzita e cieca, a chi tocca una volta, a chi un’altra. Invece l’uomo che sta nella scena del mondo con il desidero di comprendere sempre di più quale sia la parte che può e deve recitare, si lascia interrogare dai grandi fatti, (e dai piccoli, tanto più è vivo). Si lascia mettere in questione. E questo tremendo tifone che ha sventrato città e case, rapito esistenze, spezzato cuori e destini, non porterà un po’ di scompiglio nei nostri pensieri? Non li costringerà almeno per rispetto agli infiniti volti di bambini e persone colpite, a inquietarsi, a diventare più interrogativi, più profondi? Occorre mormorare almeno tra i denti stretti: ora qual è la mia parte? Occorre chiederselo di fronte alle vittime, chiedendosi se qualcosa si può fare.

E fare si può. Per soccorrere. E occorre chiederselo di fronte ai propri figli che vedono queste cose in tv, o di fronte ai colleghi che più di un: “Poveracci” non riescono a dire. Se si smette di chiedersi quale sia la propria parte, si finisce per recitare solo copioni prefissati. Che quasi nulla riesce più a scuotere, nemmeno il tifone più potente. Copioni prefissati da un potere che, come diceva un personaggio di Shakespeare, preferisce avere persone addormentate, che non si fanno domande. Chiedersi quale sia la propria parte in questo grande e strambo teatro, mette invece in moto. Movimenta il pensiero, il cuore, la fantasia. Di fronte alla tragedia come di fronte alla bellezza.

Se la mia, se la nostra parte su questo palco è solo passare casualmente cercando di cavarsela, allora ogni fatto grande o piccolo sarà letto solo in funzione del proprio piccolo interesse. E persino una tragedia immane potrebbe valere dunque zero. Valere zero, per noi, tutte quelle morti, quelle immense sofferenze. Non “servirci” a nulla. Se invece sto cercando davvero, quale sia la mia parte, ecco la cosa che avviene nel più sperduto luogo, mi fa cercare più intensamente, più seriamente, più audacemente quale sia la parte che mi spetta. Che è adeguata alla mia vita. Tutto il grande dolore che avviene dall’altra parte del mondo, come il più invisibile dolore che avviene vicinissimo, e così anche la gioia e la speranza che avvengono lontane o vicine, mi chiedono di mettere a fuoco meglio quale sia la mia parte. Così ogni cosa che accade mi movimenta. Mi riguarda. Mi tocca veramente, e non solo nella parte superficiale della reazione sentimentaloide, nella reazione immediata, che spesso sono tanto sollecitate quanto rapidamente archiviata dal mondo dei media, dallo strepito di pochi giorni.

Mentre in una parte lontana del palco del mondo si alza il lamento e l’invocazione, occorre che da questa parte si alzi la domanda, seria, movimentata. È il primo modo per concepirsi insieme, sulla stessa scena. Il primo modo per restare umani e per diventarlo sempre di più.

Fonte: www.avvenire.it
12 novembre 2013

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