Mazar-e-Sharif, condanna dei religiosi contro l’attacco all’Onu


Enzo Mangini


Nella sede di Kabul della Commissione europea intanto si ragiona sul domani dell’Afghanistan: fra le priorità, raccontano, il rafforzamento del ruolo della società civile.


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Mazar-e-Sharif, condanna dei religiosi contro l'attacco all'Onu

Ancora un avviso di sicurezza per gli stranieri che si trovano a Kabul: «Evitate per le prossime 48 ore l’area dell’università e le zone di Shar-e-Naw. Alta possibilità di proteste. Agli operatori delle Organizzazioni non governative si consiglia di evitare spostamenti non necessari e di mantenere un basso profilo». Gli avvisi sono quotidiani, via email e via sms, ma se si dovesse seguirli alla lettera, si finirebbe per rimanere confinati negli uffici, senza mettere il naso fuori nemmeno per una tazza di the. C’è chi li prende molto sul serio e chi, i più, ha ormai imparato a conviverci. Un po’ come le previsioni del tempo.
Gli ultimi due giorni sono stati relativamente calmi, in Afghanistan, dopo il fine settimana di proteste contro il rogo del Corano organizzato dal reverendo Sapp in Florida. A Kabul le proteste sono state sporadiche e con poca gente, niente a che vedere con la violenza di Mazar-e-Sharif o i cortei di Jalalabad e Kandahar.
Ieri un gruppo di religiosi di Mazar-e-Sharif ha condannato con fermezza l’assalto alla sede della Missione Onu di assistenza in Afghanistan (UNAMA) costato la vita a sette operatori stranieri dell’Onu e quattro civili afgani. Uno dei religiosi che ha condannato l’attacco è Maulawi Qaseem Khatib, mullah della famosa Moschea Blu di Mazar-e-Sharif, il principale luogo di culto della città: «Disapprovo quello che è successo a Mazar, la gente che manifestava non si aspettava che si arrivasse a un tale spargimento di sangue», ha detto Khatib ai giornalisti afgani. Una condanna delle violenze è arrivata anche dal Consiglio religioso di Kandahar. Nella città del sud, negli ultimi tre giorni ci sono stati quattordici morti per le proteste innescate dal rogo del Corano messo in scena in Florida. Il presidente afgano Hamid Karzai ha inviato a Kandahar un team di investigatori per chiarire la dinamica degli scontri tra polizia afgana e manifestanti. E altre proteste ci sono state nell’est, a Jalalabad, ma senza incidenti di rilievo.
Il capo della missione Onu in Afghanistan, Staffan De Mistura, ha intanto annunciato che undici persone dello staff Onu ancora a Mazar-e-Sharif saranno riposizionate a Kabul: «Non è un’evacuazione – ha precisato De Mistura durante una conferenza stampa – Ma solo una temporanea riorganizzazione, per il tempo necessario a ricostruire l’ufficio di Mazar. L’Onu non se ne andrà».
Non se ne andrà nemmeno l’Unione Europea, a quanto pare.
 
Il giardino della sede della Commissione Europea è un fazzoletto verde in mezzo a una zona blindata di fronte al ministero dell’interno afgano. Un divanetto di vimini con i cuscini color panna, qualche poltrona coordinata e un buon caffé, servito in tazze bianche con il bordo blu. L’Ue è attenta ai dettagli: le stelle dell’Unione sono incise anche sui cucchiaini. Trovare il posto, però, non è esattamente facile, nemmeno per gli standard di Kabul. L’Alto rappresentante dell’Ue per l’Afghanistan, Vygaudas Usackas è abbastanza chiaro su questo punto: «Non aspettiamo la Transizione per iniziare a impacchettare le nostre cose e andare via. L’Ue punta a un impegno di lungo termine, in Afghanistan, perché vogliamo un paese in pace, al suo interno e con i suoi vicini».
Alle domande dei giornalisti italiani, Usacksas risponde esponendo la posizione ufficiale dell’Ue e non potrebbe essere altrimenti: «L’Ue appoggia il processo di pace e il lavoro dell’High Peace Commission – la commissione di 70 membri nominata da Karzai per le trattative con i Talebani e la riconciliazione nazionale, ndr – E ritiene che sia indispensabile garantire trasparenza all’intero processo, così come rafforzare la qualità delle istituzioni afgane in termini di efficacia del sistema politico, buona amministrazione e partecipazione dei cittadini». Per questo, secondo Usacksas, l’Ue punta anche a contribuire al rafforzamento del ruolo della società civile afgana. Una dichiarazione importante, e tuttavia, almeno finora, l’Ue è stata molto più attenta ai rapporti con le istituzioni afgane che non a cercare di capire anche cosa sognano per il proprio futuro gli afgani che già lavorano alla costruzione di un tessuto civile solido e capace di uscire dalla trappola della guerra continua.
L’impegno della Ue per i prossimi anni, ha spiegato Usackas, sarà dedicato molto all’economia dell’Afghanistan: «Ci sono alcuni progetti molto importanti, come il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India e come quelli che riguardano il settore minerario afgano, uno di quelli su cui puntare per dare solidità all’economia del paese. Il gasdotto potrebbe essere una buona base per costruire elementi comuni tra paesi separati da una forte rivalità geopolitica e iniziare a stabilire relazioni di collaborazione e non di competizione reciproca». Quanto al settore minerario, la preoccupazione di molte organizzazioni afgane è che esso possa dare la stura a una nuova fase di «colonizzazione» del paese, senza garanzie che le ricchezze – ammesso che le indagini geologiche siano confermate e si apra effettivamente lo sfruttamento – finiscano nelle mani dell’oligarchia modernamente feudale che regge le sorti del paese. «L’Ue sta cercando di sviluppare un rapporto di collaborazione tra il governo afgano e quei paesi che hanno una certa esperienza di sfruttamento delle risorse del sottosuolo ma anche di redistribuzione delle ricchezze così ottenute. La Norvegia, per esempio, ma anche l’Australia e il Canada sono molto interessati a fornire la loro assistenza».
Il settore minerario afgano sembra far gola a molti: il Giappone ha investito 5 miliardi di dollari, quasi tutti per iniziare ad avere concessioni minerarie per iniziare a valutare le effettive possibilità di sfruttamento dei giacimenti di litio e di altri minerali. Per ora, le cose procedono molto a rilento. Un’esplosione che non ha nulla a che vedere con la guerra, rimbalza ogni tanto tra le montagne attorno alla capitale e arriva fino a Kabul. Ci si ricorda allora degli avvisi di sicurezza. Salvo accorgersi che gli afgani non si degnano nemmeno di tendere l’orecchio per capire cos’è stato.

Fonte:  www.lettera22.it

5 aprile 2011

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