Maria Grazia Cutuli: omicidio “politico”


Il Corriere della Sera


E’ stato un omicidio orribile, con lo scopo di convincere l’opinione pubblica occidentale dell’impossibilità di amministrare il paese dall’esterno. Il fratello di Maria Grazia: ” è pazzesco che sia passato tanto tempo!”


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Maria-Grazia-Cutuli-in-Afghanistan

Dal carcere di Kabul Mamur Gol Feiz e Zar Jan, due tra i partecipanti al commando che il 19 novembre 2001 intercettò e uccise l’inviata del Corriere della Sera, hanno ascoltato la sentenza che li ha condannati a ventiquattro anni di carcere. C’è un punto fermo che, a sedici anni dall’agguato sulla via fra Kabul e Jalalabad, non era scontato: quello di Maria Grazia Cutuli fu un assassinio essenzialmente politico, maturato all’epoca dell’intervento in Afghanistan, quando, in seguito all’ 11 settembre, i B 52 americani avviarono la caccia ai talebani nei cieli di Kandahar e altre roccaforti di Al Qaeda.

L’attività della Digos aveva ricostruito il contesto e ieri il pronunciamento della I Corte d’Assise presieduta da Vincenzo Capozza lo ha confermato. La giornalista, colpita assieme a Julio Fuentes (El Mundo) e ai colleghi della Reuters Harry Burton e Azizullah Haidari, è stata vittima di un blitz che avrebbe dovuto istruire il mondo su come l’Afghanistan, benché occupato dai contingenti occidentali, restasse indipendente.

L’intenzione era informare i media che le etnie locali erano ancora in grado di arbitrare le sorti del paese, malgrado l’imponente iniziativa bellica intrapresa da George Bush («Giustizia Infinita» il nome in codice dell’operazione lanciata all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle). E veicolare alle forze occidentali lo slogan di una complessiva ingovernabilità del territorio afghano.

Tutto questo si mescolava, nella mente degli attentatori, a un istinto più tradizionalmente criminale, per cui la Cutuli e gli altri, uccisi a colpi di mitraglia a novanta chilometri da Kabul, furono depredati dell’attrezzatura professionale: una radio, un computer, una macchina fotografica.
Ci sono voluti anni di attesa per raggiungere un risultato.

Sulla via dell’inchiesta, tutta in salita considerato che, all’epoca, fra Italia e Afghanistan non erano in vigore accordi bilaterali, gli investigatori avevano accertato anche il ruolo giocato da altre quattro persone.

Nel 2006, dopo alcuni proscioglimenti da parte del gip e del Tribunale del Riesame, la Procura di Roma aveva concluso l’indagine per omicidio e rapina nei confronti di Mar Jan, Miwa Jan, Mohamed Taher Fedai, Reza Khan (giustiziato per un altro delitto l’anno successivo), Mamur Gol Feiz e Zar Jan.

Si arriva così al 2009 quando il gup Luciano Imperiali rinvia a giudizio Mar Jan (poi assolto per dubbi sulla sua identità) prosciogliendo invece Mohammad Taher Fedai e Miwa Jan perché gli indizi raccolti nei loro confronti sono insufficienti. Sopravvivono, stralciate, le altre due posizioni, quelle degli imputati attuali, Mamur Gol Feiz e Zar Jan già detenuti in Afghanistan. Ma è nel 2015 che il pubblico ministero Nadia Plastina chiede il loro rinvio a giudizio per rapina e omicidio davanti a un tribunale italiano. Il capo d’imputazione che, in una paginetta, riassume anni di lavoro individua Mamur e Zar Jan come gli autori del delitto perché «in concorso fra loro e con altri allo stato non identificati, procuravano la morte di Cutuli Maria Grazia, esplodendo contro di lei colpi di arma da fuoco». Le informative della polizia giudiziaria avevano dato conto di una serie di azioni di guerriglia intraprese nei confronti di giornalisti stranieri allo scopo di convincere l’opinione pubblica occidentale dell’impossibilità di amministrare il paese dall’esterno.

A fine mattinata, uscendo dall’aula, una volta che il Tribunale ha fissato anche i risarcimenti che gli imputati dovranno versare alla famiglia e alla RCS (250mila euro) dice Caterina Malavenda, legale RCS: «È stato un delitto politico e orribile. Avere una sentenza in Italia non restituisce Maria Grazia alla famiglia, ma è di conforto per i parenti perché almeno sanno che lo Stato c’è e ha fatto il suo dovere. Grazie alla procura e la Digos per il lavoro eccezionale che hanno fatto». Commenta la sentenza il fratello di Maria Grazia, Mario Cutuli: «É pazzesco che sia passato tanto tempo. È molto strano. Sappiamo tutti i problemi che ci sono però, è ovvio, è un sintomo di qualcosa che non funziona. Alla fine la sentenza ci sta anche bene. Il problema è semplicemente che continuare a ripercorrere quei momenti tragici di mia sorella per sedici anni è una cosa che comunque continua ad essere pesante». Già annunciato il ricorso degli imputati.

di Ilaria Sacchettoni

http://27esimaora.corriere.it

29 novembre 2017

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