Le ong afghane: non ci sarà pace senza vera giustizia


Rachele Gonnelli


Un grande convegno in due tappe, a Kabul e ora a Roma, di Afgana.org per dare voce alle vittime del conflitto e provare a ricostruire il tessuto sociale. Tra gli organizzatori anche la Tavola della pace.


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Le ong afghane: non ci sarà pace senza vera giustizia

Il passo decisivo per uscire da trent’anni di guerra in Afghanistan è ora. E l’inciampo va scongiurato. Tolto di mezzo Osama Bin Laden, il presidente Obama ha annunciato, pochi giorni fa dai microfoni della Bbc, che i primi 30mila soldati americani – circa un terzo del contingente – inizieranno le procedure di rimpatrio già dal mese prossimo per proseguire fino al 2014. Perciò gli americani in Afghanistan sono interessati soprattutto a ciò che chiamano «reconciliation», cioè il negoziato con i talebani. Su un piatto della bilancia, il reintegro dei combattenti nella società legale, sull’altro la deposizione delle armi. Purché rinuncino alla violenza e al legame con Al Qaeda e accettino la Costituzione del 2002. Varie ed eventuali altre clausole sono demandate alla cosiddetta «Jirga di Pace», meglio denominata «High Peace Council», i cui membri sono stati cooptati dal governo di Hamid Karzai.

L’operato di questa commissione, e la sua stessa composizione, è però criticata da tutta una serie di nuovi soggetti che rappresentano la nascente società civile afghana. Critiche che sono risuonate anche nel convegno organizzato a Kabul a fine marzo -con secondo round in questi giorni a Roma e ricevimento ieri al Quirinale – da Afgana.org, network di ong che lavora con la Cooperazione italiana, e il supporto di Intersos. Associazioni di donne, organizzazioni per i diritti umani, ong che si occupano delle vittime civili del conflitto – Afgana ne ha raccolte 60 su una piattaforma che chiede più riconoscimento dal governo di Kabul e più trasparenza sulle sue decisioni- preferiscono parlare di «transitional justice», giustizia di transizione, piuttosto che di riconciliazione e basta. Così come indicato, tra l’altro, dalla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ottobre 2000, quello che stabiliva gli obiettivi umanitari dell’intervento armato internazionale. «Noi pensiamo che il negoziato con i talebani avrà successo solo se coinvolgerà davvero la società civile e le vittime», spiega Liah Ghanzanfar, direttrice della Fondazione Solidarity for Justice.

«È un grande errore – insiste – centrare il focus solo su pace e sicurezza invece che su pace e giustizia». La fondazione diretta da Liah ha iniziato con raccogliere le storie di uccisioni, rapimenti, stupri, bombardamenti di civili. Molte di queste storie sono racconti orali di donne che non sanno leggere e scrivere e che l’associazione di Liah assiste. È sconvolgente verificare come quasi mai le donne analfabete che hanno raccontato i loro orrori nei disegni che qui riproduciamo non riescono ad immaginarsi una remissione dei torti subiti diversa dalla vendetta, dall’occhio per occhio. È la giustizia efferata che applicano i talebani. O anche le antiche «jirghe» e «shure» di villaggio che, oltre ad applicare la sharia, formulano sentenze sulla base di usanze tradizionali che variano a seconda dei luoghi, delle culture e delle etnie e molto spesso – come ha spiegato la ricerca dell’avvocato Afsal Nuristani – sono contra legem.

A far concorrenza a questi tribunali «dei saggi locali» ci sono i più giovani talebani. Nel nord del Paese vanno in giro a far proseliti in tre a bordo di due motociclette – un mullah e due assistenti, descritti su Radio Killid -, raggiungono anche le comunità più sperdute e il primo servizio che forniscono nella loro opera di propaganda è proprio l’amministrazione dei diritti e delle pene. Spesso la loro è l’unica giustizia conosciuta. «Per forza – spiega Liah -. Nei pochi tribunali statali si assiste a una continua frode ai danni delle vittime: avvocati e giudici si mettono d’accordo dietro le quinte e anche quando i criminali vengono arrestati con i soldi riescono quasi sempre ad uscire di prigione».

In molti casi poi sono i vecchi «signori della guerra» a rappresentare lo Stato. Come Juma Khan Hamdard, attuale governatore della provincia di Paktia – teatro dell’ultimo sanguinoso attacco dei talebani – spostato lì dal governo Karzai dopo aver retto l’amministrazione, con gli stessi legami e metodi, a Baghlam e a Jowzjan. O come il suo mentore Gulbuddin Hekmatyar, ex primo ministro dell’Alleanza del Nord, fondatore del gruppo «Hezb e Islami», vicino ai talebani, ancora schedato nella lista nera Usa anche se nell’ultimo anno è stato il primo leader a intavolare negoziati di pace rompendo l’alleanza con il mullah Omar e il clan Haqqani. Famoso per aver ordinato lo sfregio con l’acido del volto delle ragazzine che andavano a scuola e di altre nefandezze, per molte delle vittime intervistate da Liah l’ex combattente antisovietico Hekmatyar non è niente di più di un criminale di guerra. Ma lui ambirebbe a conservare un ruolo politico nell’Afghanistan liberato dalle truppe straniere.

L’Italia – che cederà nelle prossime settimane la prima area di Herat al controllo integrale degli afghani – avrebbe anche il compito di sviluppare il tessuto giurisdizionale nell’intero Paese. Ma su questo piano non può vantare successi. «In pratica ci sono tecnicalità che non vengono applicate, non solo italiane ma tedesche, canadesi…», ammette la ricercatrice finlandese Sari Kouvo, vice direttore dell’istituto di ricerche sociali di Kabul Afghan Analist Network. Impiantare un tribunale, formare avvocati e giudici sui princìpi dello Stato di diritto, dotare le sedi di computer e altri strumenti di lavoro e aggiornamento. Tutto questo non viene fatto. «È difficile senza una volontà politica – ammette l’analista finlandese- e negli ultimi dieci anni nessuno ha chiesto alle vittime del conflitto cosa volevano, nessuno le ha ascoltate, ma è del tutto evidente che la riconciliazione non può prescindere da loro». Sono le ong che ora si sono assunte questo compito, tentando di ricostruiere la memoria collettiva frantumata e sepolta da trent’anni di guerra. La tappa successiva, suggerisce Sari Kouvo, potrebbe essere un tribunale per i crimini di guerra sul modello della Cambogia, per metà costituito dalla nuova leva di giuristi afghani. Sarebbe quasi un tribunale della storia. Ma anche un appiglio contro l'impunità.

Fonte: l'Unità

25 maggio 2011

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