L’Afghanistan a due anni dal ritorno dei Talebani


Giuliano Battiston


A due anni dalla conquista di Kabul da parte dei Talebani, gli effetti del terremoto innescato dalla caduta della Repubblica islamica continuano a dispiegarsi in ogni settore della vita afghana. La transizione istituzionale, politica e sociale è ancora in corso, ma alcune tendenze sono già evidenti. Crisi umanitaria aggravata, forte contrazione dei diritti, apartheid di genere, stallo diplomatico: un tentativo di bilancio è urgente.


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FILE PHOTO: A woman wearing a niqab enters a beauty salon where the ads of women have been defaced by a shopkeeper in Kabul, Afghanistan October 6, 2021. REUTERS/Jorge Silva/File Photo

Per i Talebani è mediamente positivo: non ha riconoscimento ufficiale, sconta sanzioni, isolamento e tensioni interne, ma l’Emirato tiene e per gli attori regionali è l’alternativa meno rischiosa.

Per la diplomazia euroatlantica, il bilancio è negativo: le richieste ai Talebani rimangono “governo inclusivo, rispetto dei diritti, controterrorismo”, ma sui primi due punti gli islamisti contraddicono ogni aspettativa, violando l’intero quadro normativo internazionale.

La popolazione resiste, ma è schiacciata: da una parte le politiche autoritarie delle autorità di fatto che praticano apartheid di genere e repressione del dissenso; dall’altra il disinteresse o l’afonia politica della comunità internazionale. Per uscire dall’impasse, serve una coraggiosa diplomazia dei piccoli passi, dietro le quinte, alla ricerca dell’opzione meno peggiore. L’alternativa – il disimpegno diplomatico in nome del rispetto dei diritti umani – isolerebbe ulteriormente il Paese e porterebbe le autorità di fatto su posizioni ancora più autarchiche e repressive.

L’Emirato islamico tiene

Il cambio di regime dell’estate 2021, radicale e repentino, non ha portato al crollo o alla paralisi istituzionale. Manca ancora un indirizzo chiaro sull’architettura dei poteri statuali e una divisione chiara tra il movimento dei Talebani, con i suoi gruppi di influenza e feudi territoriali, e l’Emirato, con le sue articolazioni ministeriali e amministrative. Ma i Talebani tengono il punto, come spiega nella sua analisi per l’ISPI Antonio Giustozzi. L’ultimo rapporto dello Analytical Support and Sanctions Monitoring dell’Onu prevede che le divisioni tra le fazioni indeboliranno progressivamente il regime e che l’unità di facciata sfoci in scontri armati nell’arco di 12-24 mesi. Ma già in passato i Talebani sono stati dati per spacciati. Tale esito appare prematuro, ora. Nel frattempo, l’Emirato è finanziariamente più solido del previsto e ha raggiunto quell’autosufficienza che gli consente di “gestire uno Stato a bassa capacità e resistere alla pressione delle condizionalità degli aiuti e delle sanzioni”. Può “sopravvivere senza essere messo all’angolo”, continuando ad avere come obiettivo primario la propria sopravvivenza.

Coesione interna, sovranità, istruzione

L’Emirato dunque regge. La transizione dei Talebani da movimento di guerriglia a gruppo di potere politico-istituzionale non ha prodotto fratture insanabili né l’implosione del movimento. Le spinte centrifughe sono state trattenute dalla distribuzione delle risorse e dalla capacità del leader supremo, Haibatullah Akhundzada, di manipolare e rafforzare la propria posizione a Kandahar, lontano dai ministeri di Kabul, come spiega Giustozzi. Un consolidamento che nel prossimo futuro potrebbe riguardare anche gli esteri, portando a politiche più radicali, ma meno erratiche e imprevedibili per la comunità internazionale.

Per alcuni osservatori è proprio la coesione interna – il fattore che ha garantito longevità politica e la “vittoria” sul campo di battaglia – l’elemento più importante per i Talebani. Perfino più del riconoscimento ufficiale dell’Emirato. Oltre che come strumento di sabotaggio dei piani di riavvicinamento all’Occidente tentati dalla componente pragmatica dei Talebani, andrebbero lette in questa ottica anche alcune politiche discriminatorie verso le donne adottate dal leader Haibatullah Akhundaza. Le quali dividono gli alti esponenti dell’Emirato, ma legittimano la leadership e tengono unito il fronte dei militanti di medio-basso rango attorno alla presunzione di un “vero sistema islamico”. Riducendo così l’emorragia verso altri gruppi radicali, i quali non devono superare lo scoglio del passaggio dal jihad combattuto al jihad da ufficio, privo di un nemico riconoscibile.

Alcune scelte sono dettate poi da un impasto di ideologia, interessi pragmatici, rivendicazione di sovranità. Per la leadership talebana il ritorno al potere, dopo venti anni di guerriglia contro un governo considerato asservito agli stranieri, coincide con il dovere di rimettere il Paese in carreggiata, dopo la sbandata liberale e occidentale. Per gli ultraortodossi le politiche di apartheid di genere sono dei correttivi. Servono a purificare la società, a sanarla, dopo che per venti anni è stato iniettato veleno culturale attraverso l’occupazione militare e il suo inevitabile corredo di valori e modelli sociali. “Gli aspetti negativi degli ultimi 20 anni di occupazione legati all’hijab delle donne e alla cattiva guida finiranno presto”, ha dichiarato il 25 giugno 2023, nel discorso con cui celebrava la festività Eid-ul-Adha, Haibatullah Akhundzada. È solo grazie a tali misure correttive che “l’indipendenza dell’Afghanistan è stata nuovamente ripristinata, la fratellanza e l’unità nazionale rafforzate”.

Va letto dentro questa cornice anche il progressivo assorbimento del sistema educativo e il suo rimodellamento secondo i valori dell’Emirato. Come è stato ben sintetizzato, per i Talebani sull’istruzione si gioca una vera e propria “guerra delle idee”. Era in corso già prima, quando combattevano contro la Repubblica islamica, ma è oggi che possono essere sicuri di poter gettare le basi per godere, oltre che del monopolio della violenza, del monopolio dell’istruzione. Da qui, un “costante processo di talebanizzazione, teocratizzazione e strumentalizzazione” dell’educazione che riflette una fekri jagra, o “guerra delle idee”. La quale punisce innanzitutto ragazze e donne: “Il divieto assoluto per le donne di accedere all’istruzione superiore – e per l’istruzione delle ragazze oltre la prima media – sta distruggendo la continuità, la sostenibilità e il significato di tutta l’istruzione rimanente, a qualsiasi livello”.

Persecuzione di genere, crisi umanitaria e crisi dei diritti

Secondo lo Strategic Framework per l’Afghanistan 2023–2025 reso pubblico dall’Onu il 3 luglio 2023, l’Afghanistan è “nel pieno di una crisi su una scala senza precedenti”. Una crisi multipla che ha le sue radici ai tempi della Repubblica islamica ed è stata poi radicalizzata con la restaurazione dell’Emirato. La Repubblica era un Paese-rentier, la cui spesa pubblica dipendeva perlopiù dagli aiuti stranieri. Con l’arrivo dei Talebani, sono stati congelati gli assett della Banca centrale e sottratti a Kabul gli aiuti allo sviluppo. Mantenendo in vigore solo quelli umanitari. Inferiori alle necessità e in diminuzione. La stessa Onu sostiene che la propria capacità di fornire assistenza alla popolazione è condizionata da fattori esterni, “in particolare dalle azioni delle autorità di fatto e dal sostegno dei Paesi donatori”. Le autorità di fatto hanno vietato alle donne di lavorare nelle organizzazioni non governative e nell’Onu, e intensificano le intromissioni nell’ecosistema degli aiuti. I Paesi donatori tirano i remi in barca.

Nel marzo 2023, Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, ha elaborato un Piano di risposta umanitaria che prevedeva per il 2023 uno stanziamento di 4,6 miliardi di dollari per assistere 23,7 milioni di afghani a rischio (su 40 milioni di abitanti). Il 5 giugno, riconoscendo la riluttanza dei donatori nel fornire aiuti in seguito alla decisione dei Talebani di vietare alle donne afghane di lavorare per l’Onu, la cifra è stata ridotta a 3,2 miliardi. Nell’ultimo rapporto dell’Ispettore generale speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) si fa notare che “questa riduzione dei finanziamenti di oltre 1,3 miliardi di dollari rappresenta un taglio di quasi il 30%”. Secondo l’Onu tale taglio condurrà a un’ulteriore contrazione dell’economia. Va di pari passo con la minore disponibilità dei Paesi donatori: al giugno 2023, il Piano di risposta umanitaria dell’Onu era finanziato soltanto al 14%. Il World Food Programme (Wfp) stima che 15,3 milioni di persone dovranno affrontare un’insicurezza alimentare acuta da qui a ottobre 2023. Di questi, circa 3 milioni sono sull’orlo della fame. Ma ad aprile il Wfp ha dovuto tagliare l’assistenza alimentare d’emergenza a otto milioni di persone a causa della grave carenza di fondi, e altri tagli potrebbero essere necessari.

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