La riconversione che manca nel DDL Difesa


Emanuele Giordana - ilmanifesto.it


Soldati e parlamento. Perché nel dibattito in corso non dobbiamo dimenticare la guerra. Vincolare il risparmio ottenuto col ritiro alla ricostruzione, è l’unico modo per dare dignità a un percorso oscuro generato dagli anni bui della guerra al terrore, un’emergenza costante.


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La riconversione che manca nel DDL Difesa

Come ha rilevato qualche giorno fa sull’Unità Flavio Lotti, la presentazione in parlamento del disegno di legge sulla revisione della spesa militare, tutto fa fuor che le due cose che avrebbe dovuto mettere nero su bianco: definire chiaramente i tagli al bilancio delle Forze armate, che invece ne esce niente affatto ridotto ma semmai rafforzato, e definire quali obiettivi deve avere oggi un esercito “moderno”. Ecco perché il dibattito sulle operazioni in corso e sui conflitti nei quali l’Italia è coinvolta dovrebbe rientrare a pieno titolo nella discussione parlamentare di questi giorni. Sono un pezzo fondamentale di un processo di revisione, sia dal punto di vista del risparmio – e, soprattutto, sulla riconversione della spesa militare – sia sugli obiettivi e i compiti che i soldati sono chiamati a svolgere.

Il caso dell’Afghanistan (ma si potrebbe aggiungere la Libia) è il più eclatante e lega bene il capitolo denaro al capitolo obiettivi, se lo si sgancia dal fuoriviante linguaggio delle missioni di pace. Negli ultimi anni, mentre l’investimento nel settore civile afgano diminuiva costantemente, la spesa militare italiana in Afghanistan è costantemente aumentata arrivando a raddoppiarsi e passando da un milione di euro al giorno a due. Il livello di spesa è così elevato che alcuni maliziosi hanno suggerito che la lentezza con cui il ministro Di Paola sta annunciando il calendario del ritiro (che si deve comunque completare nel 2014) potrebbe forse legarsi al fatto che il volume di denaro impiegato nelle missioni all’estero serve virtuosamente a colmare il deficit di cassa ordinaria delle forze armate. Il ritiro comunque ci sarà e genererà un risparmio cospicuo sul cui futuro nulla sappiamo. Questi fondi saranno reincamerati dal Tesoro? Andranno a coprire la spesa logistica del ritiro o l’aumento del costo unitario per ogni singolo soldato che ancora si troverà in Afghanistan alla fine del 2014 o negli anni a venire (per la formazione dell’esercito afgano, si dice)? O andranno a finire nelle casse dell’esercito per rafforzarne la “revisione”?

Alla fine dell’anno scorso il network “Afgana”, la Rete italiana per il Disarmo e la Tavola della pace, hanno lanciato una campagna per la riconversione di almeno il 30% del risparmio che si otterrà col ritiro dei militari dall’Afghanistan  perché sia reinvestito in attività di cooperazione civile in quel Paese: un modo per evitare che le macerie di una guerra non ancora conclusa vengano abbandonate col ritiro dell’ultimo soldato senza che si metta seriamente mano a ricostruire. Tutto ciò ha a che vedere con la discussione di questi giorni o, almeno, dovrebbe averci a che fare. Significherebbe non solo che ci si deve interrogare sui risparmi e sugli obiettivi che riguardano le missioni militari all’estero, ma che va restituita al parlamento la sovranità che le emergenze militari gli hanno costantemente sottratto in questi anni. L’avvio di una discussione virtuosa, già iniziata da parte di alcuni coraggiosi parlamentari, deve dunque tener conto, oltre che dei bilanci e degli obiettivi, anche di cosa fare e con quale mandato. E non solo nei luoghi dove i nostri militari andranno ma anche nei luoghi dai quali vengono via. Vincolare il risparmio ottenuto col ritiro alla ricostruzione, è l’unico modo per dare dignità a un percorso oscuro generato dagli anni bui della guerra al terrore, un’emergenza costante che ha spesso sottratto ai parlamenti europei e alla società civile il diritto di interrogarsi prima di agire. 

Fonte: http://www.ilmanifesto.it
31 Maggio 2012

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