“La pace economica? Io voglio un Paese”


Vittorio Arrigoni


Vittorio Arrigoni alla vigilia degli ennesimi colloqui tra israeliani e palestinesi è andato “a tastare il polso dell’uomo della strada di Gaza”.


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"La pace economica? Io voglio un Paese"

Riferendosi agli accordi di Oslo il compianto Edward Said usava ripetere che il processo di pace è il primo ostacolo alla pace. Alla vigilia di questi ennesimi colloqui, sono andato a tastare il polso dell’uomo della strada di Gaza.
Juber, cittadino di Khan Younis: “Abbiamo sempre avuto negoziati e cosa abbiamo ottenuto? Sempre meno terra e più coloni. E qui a Gaza più miseria e disperazione. Questa è solo un’operazione mediatica concessa da Netanyahu a Obama come semaforo verde per attaccare l’Iran. Non ce ne facciamo niente di strette di mano in un album di fotografie, se c’era la buona volontà sarebbe prima stato rimosso l’assedio, ma a Gaza non cambierà nulla, lo sanno anche le galline nel mio pollaio”. Non sorprenda la padronanza dell’argomento del palestinese qualunque della Striscia, qui anche nell’analfabetismo si cresce a pane olio zaatar e politica.
Mahfuz, pescaore di Gaza city: “Dare il tempo a Israele di ripulire Gerusalemme dagli arabi, questo il senso dei negoziati. Ramallah avrebbe dovuto richiedere la fine dell’assedio, e poi sedersi al tavolo. E’ importante ricompattarci fra noi palestinesi, prima di inviare un rappresentante”.
Murin taxista, va contromano: “Sono felice per questi negoziati, è possibile che ci consentano di tornare a viaggiare e magari a lavorare in Israele. Ho molto fiducia in Abu Mazen, che ha sempre dimostrato di amare Gaza, guarda solo tutti i soldi che spedisce qui una volta al mese”.
“Balle” interviene Salah Al Din, studente universitario. “Abu Mazen con gli stipendi che riversa a Gaza i è comprato parte del consenso. Questi negoziati non avrebbero mai dovuto cominciare prima di richiedere la fine dell’assedio. Gaza non è contemplata nelle trattative, non passa loro nemmeno nell’anticamera del cervello. Guarda, io sono di Fatah ma Abu Mazen non mi rappresenta proprio, non ha chiesto alla sua gente cosa pensa di questi negoziati, non l’ha chiesto alla nazione. Il massimo che puà ricavare da questi colloqui sono una cosa sola: pace economica in West Bank, e io non voglio pace economico, io voglio un Paese!”. Saber che durante la seconda intifada aveva abbracciato la lotta armata, oggi fa il volontario nella sua organizzazione di beneficenza a Beit Hanoun, e combatte l’occupazione con l’arma della non violenza: “ Di per sé ben venga l’idea di negoziati diretti con Israele se è per ottenere più diritti, ma è ridicolo e politicamente impossibile pensare che Netanyahu, sorretto da un governo di cui fa parte il movimento dei coloni, possa concedere qualcosa. Anche l’intermediario non è attendibile, ci vuole qualcuno che raggiunga una bozza d’intesa imponga a Israele di rispettare le risoluzioni, e questi non possono essere certo gli Usa che ogni anno donano a Israele miliardi di dollari in armamenti, per colpire una popolazione civile disarmata”.
L’ultimo che interpello non è proprio un uomo qualunque, ma Haider Eid, professore associato del Dipartimento di Letteratura Inglese si BDS qui a Gaza, la campagna di boicottaggio a Israele:”questi negoziati sono uno schiaffo in faccia alle 1400 vittime dell’ultima guerra israeliana ai martiri della Freedom Florilla. La missione investigativa dell’Onu guidata dal Giudice Richard Goldstone accusa Israele di aver commesso “crimini di guerra e possibili crimini contro l’umanità”. I negoziati, tuttavia, hanno lo scopo di aiutare Israele a scendere dalla gogna e dare esternamente l’impressione che le parti in causa abbiano le stesse responsabilità nel conflitto, negoziando il riallineamento delle frontiere. Non bisogna essere dei politologi per sapere che l’esito di questi negoziati non comporterà alcuno stato palestinese indipendente poiché tra le possibilità è stata assassinata sul nascere dalla parte potente, cioè da Israele. Il così detto “Processo di pace” non ha in realtà tanto a che vedere con la pace, quanto con il processo in sé”.

Fonte: il Manifesto 

2 settembre 2010

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