L’Egitto riapre il valico di Rafah, centinaia di palestinesi oltre il confine


Francesca Paci


Il Cairo autorizza il transito di donne, bimbi e uomini d’affari. I padroni del traffico sotterraneo “Così perdiamo parte del reddito”. Ma in 250 riabbracciano i parenti. I timori di Israele, plauso dell’Ue.


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L'Egitto riapre il valico di Rafah, centinaia di palestinesi oltre il confine

E adesso che quello di Rafah non è più un confine blindato, che ne sarà del traffico sotterraneo fiorito negli ultimi 4 anni dentro le viscere della frontiera egiziana? La domanda serpeggia a bassa voce tra i vicoli polverosi della città più meridionale di Gaza, dove dal 2007, quando Israele e l’Egitto risposero alla presa del potere di Hamas sigillando la Striscia, ognuno 18 mila abitanti mangia, studia, guida l’auto, ammoderna la casa e marita i figli, grazie, più o meno direttamente, alle gallerie del contrabbando, ingegnoso escamotage civile e militare all’embargo internazionale.

La storia dei tunnel di Rafah ricorda la metafora brechtiana della guerra, croce di chi muore in trincea e, nelle retrovie, delizia del mercato nero. Da ieri il valico è aperto. Per suggellare l’accordo del Cairo tra Fatah e Hamas, l’Egitto ha autorizzato a tempo indeterminato il transito senza visto di donne, bambini, malati, uomini under 18 e over 40 e, udite udite, businessman, vale a dire tutti coloro che da domani faranno concorrenza aperta al duty free della sopravvivenza underground, un giro d’affari da 650 milioni di dollari l’anno nei periodi di massima necessità. «Da un lato sono felice di riavere la libertà, dall’altro capisco che tante famiglie perderanno la loro sola fonte di reddito» dice al telefono da Rafah il ferramenta cinquantenne Abu Khalil, precisando di non aver mai guadagnato uno schekel dai tunnel.

Tranne i muscolosi operai con la maglietta intorno alla testa al chiodo sotto i teli che punteggiano l’estremo lembo di Gaza, nessuno a Rafah ammette d’essere collegato all’incessante attività delle carrucole che scaricano nei magazzini dei quartieri frontalieri di Tel Zareb, al Abur e Brazil, cioccolato, latte in polvere, zucchero, medicine, l’ambito Viagra, capre, fiammanti moto cinesi, spose su commissione come quella «ordinata» alla fine del 2008 dal facoltoso Khaled abu Saleh e, ovviamente, armi. Eppure, calcola l’economista palestinese Omar Shaban, il labirinto da 4 chilometri di gallerie da 700 metri l’una a ridosso del Sinai ha dato lavoro per anni a 12 mila persone. C’erano le «tasse» da pagare a Hamas, d’accordo. Impossibile per i contrabbandieri evitare i «doganieri» con l’uniforme nera del partito islamico al potere a Gaza posizionati a pochi metri dall’uscita dei tunnel. Ma anche così, se gli affari tiravano, uno come Abu Selim riusciva a tirar fuori dalle sue due gallerie circa 100 mila dollari al mese.

Cosa succederà adesso che, in teoria, il commercio con l’Egitto potrà svolgersi alla luce del sole? Una preoccupazione inesistente per i 250 palestinesi che ieri hanno attraversato il confine con l’unico pensiero di abbracciare i parenti bloccati oltre cortina, affrontare l’operazione rinviata per mesi o iscriversi finalmente all’università di un paese da cui guardare con un po’ più di speranza all’Europa. Ma non per il rimanente milione e mezzo di gaziani. O almeno non per tutti. Di certo non per quelli di Rafah, dove secondo il quotidiano israeliano Ynet, tra il 2007 e il 2008 il mercato nero aveva ridotto la disoccupazione dal 50% al 20%. Non che dopo oltre 4 anni d’isolamento i palestinesi rischino di cadere nella trappola emotiva del si stava meglio quando si stava peggio. Specialmente i ragazzi con meno di 30 anni, il 70% della popolazione nonchè la fetta più sensibile al vento libertario della primavera araba che confida molto nella visita a Gaza del messo del presidente Abu Mazen incaricato di cementare l’unità riconquistata al Cairo con la pianificazione rapida di un nuovo governo. Nell’immediato però, emergono paure e contraddizioni. «Ci sono dei vantaggi nella guerra: nel 2007, all’epoca dello scontro tra Hamas e Fatah, la richiesta di armi mi faceva guadagnare fino a 150 mila dollari al giorno, abbastanza per campare 12 famiglie» ricorda il «titolare» di diversi tunnel Abu Said. Il 23 gennaio 2008, quando migliaia di palestinesi minarono la barriera dilagando in Egitto si accorsero che la vita della cittadina oltreconfine di Arash era sì libera ma anche assai più misera della loro e, dopo aver fatto il pieno di elettrodomestici, pentole e quintali di farina, tornarono massicciamente indietro verso Gaza City, inaspettato e festoso controesodo.

Israele segue con ansia «il ritorno alla normalità» della frontiera che dalla data del proprio ritiro da Gaza nel 2005 considera «il Far West». Il moltiplicarsi dei tunnel è da allora uno dei crucci dell’intelligence militare al punto da lanciare nel 2009 l’operazione «Piombo Fuso» con l’obiettivo di distruggere «il contrabbando sotterraneo delle armi» che in gergo sono chiamate bizer, dall’arabo semi. Allora il diplomatico conservatore Dore Gold spiegava i bombardamenti sul valico di Rafah con quel mercato bellico che in due anni aveva portato l’arsenale di Hamas da 179 a 946 missili. Servì a poco. Nel giro di pochi mesi le 100 gallerie residue tornarono più o meno all’originaria quota di 500 e il business ripartì. In fumo finì anche il progetto da 250 milioni di dollari di riempire d’acqua il labirinto a 30 metri di profondità. Il futuro oggi è aperto come il confine più temuto da Tel Aviv.

Fonte: La Stampa

28 maggio 2011

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