In fuga dalla Tunisia: la mia odissea di 22 ore su una barca di 10 metri


La Stampa


L’inviato de “La Stampa” Domenico Quirico ha viaggiato in compagnia di cento disperati su una carretta del mare. In vista del porto l’imbarcazione è colata a picco. «Salvati dai guardacoste».


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In fuga dalla Tunisia: la mia odissea di 22 ore su una barca di 10 metri

Io l’ho odiato subito, il battello senza nome, ho odiato le sue fiancate di carapace arrugginito, i suoi dieci metri sudici e scrostati, appena dieci metri, che perfino in porto sembravano troppo fragili per sfidare il mare. Forse è stato davvero un peschereccio un giorno, tanto tempo fa, forse davvero è scivolato sicuro tra le onde. Chissà. Ma le cose esistono se hanno un nome, esistono nelle sillabe che pronunciamo. Altrimenti sono niente.

E invece il barcone no, chiedevi al pilota, ai passeur che ti avevano venduto il posto, ai centoedodici tunisini che con me erano a bordo, e ti rispondevano sguardi vuoti: «Non so, un nome? Perché dovrebbe avere un nome? Una barca». E tu, Karim e gli altri, a ripetermi, scanzonati: no, il battello è buono e il pilota ha già fatto la traversata, non temere amico, arriveremo a Lampaduza in un baleno».

È vero, Karim, noi non abbiamo fatto lo stesso viaggio. Anche se siamo partiti dallo stesso porto, se eravamo a bordo della stessa barca e il prezzo che abbiamo pagato era eguale. E abbiamo rischiato tutti e due di morire. Io non avevo apparentemente nulla più di te, non il giubbotto salvagente, non il telefono satellitare che funziona anche in mare aperto quando quei piccoli miracoli che voi continuamente palpeggiate e fate suonare restano muti. Lo avete fatto per tutto il viaggio, accaniti, senza successo, perché è bella la modernità quando in fondo costa poco e la si può comprare. Il tuo e quello dei tuoi compagni non è stato il mio viaggio; perché portavate con voi qualcosa che io non avevo, qualcosa di impalpabile e prezioso, la speranza che rende leggeri e cancella la paura e qualche volta oscura anche la ragione.

«Sarà una barca grandissima»

Nei giorni in cui siamo rimasti chiusi nella casa dei trafficanti di uomini in attesa che il maltempo finisse e si potesse partire, continuamente parlavamo del «grande battello» su cui avremmo navigato fino a Lampedusa. Era quello un modo per rassicurarci, la traversata la faremo con una bella barca, e ci sentivamo fieri e sicuri, non come quei disgraziati che si affidano a gusci di noce e poi capisci perché affondano e muoiono in mare. Il nostro sarebbe stato, dunque, un battello grande; e giorno dopo giorno si era trasfigurato, lievitava, da peschereccio era diventato immenso come un transatlantico e una portaerei. E invece eccolo, un battello senza nome, dieci metri di metallo liso come una tela, il motore che ronfa a sussulti come se chiedesse a ogni passaggio aria per respirare. La morte qualche volta si attacca alle cose, te ne accorgi; e il battello senza nome era una nave destinata a morire. Comunque sarebbe stato questo il suo ultimo viaggio, a Lampedusa era condannato al sequestro, e poi gettato su qualche spiaggia fuori mano per arrugginire in pace. Il viaggio che noi clandestini avevamo pagato era la sua agonia.

Non credo nel Caso, mi sforzo di restare poveramente avvinghiato all’illuministico conforto della ragione. Ma so che talvolta il Destino gioca con noi, perfidamente ci allunga o ci stringe i suoi lacci. E io non avrei mai dovuto imbarcarmi su quel barcone. Avevo pagato il passeur per un altro, più grande davvero, diciassette metri, con duecento persone a bordo. Domenica sera è arrivata la telefonata: vieni, è il giorno, il mare è calmo e il vento non spirerà per due giorni. Zarzis, il porto dei trafficanti di uomini, era tutto in faccende, macchine cariche di ragazzi, i bar fitti di passeur che a gran voce fissavano luoghi e ore, i telefonini in fraseggio continuo. Forse era così quando da qui partivano le flotte dei barbareschi e nell’aria c’era già il profumo del bottino.

«No, tu no. Sei una spia»

Sono andato sulla spiaggia, a sera, proprio davanti agli alberghi più grandi della città. Il mare era così placido che nemmeno ne sentivi il sussurro sulla battigia. Illuminati dai fari delle auto, giovani uomini in fila indiana correvano, come se fosse una esercitazione militare, verso le piccole barche che dovevano condurli al largo. Dove il mio battello lumeggiava in verde e in rosso, gioioso e tentatore. L’uomo che non mi ha voluto era giovane e magro, barbuto, sospettoso, in mano un grosso bastone. Mi ha illuminato con la pila, scrutandomi da vicino, ha messo le mani nella mia sacca per frugare: «Non lo voglio il sahafi, il giornalista. Ha la telecamera, per fare la spia, me ne frego dei suoi soldi…».

Così sono andato via, nella notte partivano altri cinque battelli, non era difficile trovare un passaggio se si hanno i duemila dinari, mille euro, per pagare. Stavolta l’appuntamento era in una strada vicino al porto: va bene puoi venire… Sono salito in un furgone carico di uomini silenziosi e tesi, i miei compagni di viaggio. Siamo andati al porto passando trionfalmente davanti alla garitta vuota dei soldati che dovrebbero controllare e evitare le partenze dei clandestini.

C’era folla, chiasso, di auto di camion di moto, luci accese ovunque uomini armati di bastoni («è la sicurezza» mi hanno spiegato) manovravano le barre di accesso che di giorno sono affidate ai funzionari doganali. Ma la notte di Zarzis appartiene ad altre leggi, comandano uomini diversi per cui la polizia è, al massimo, il fastidio di una mancia corruttrice, di un pugno di dinari, e non è certo nell’affare la spesa più grossa. Confesso che quando ho visto il battello sono caduto in errore: pensavo fosse la barca che doveva trasferirci al largo, era troppo piccola e antica per attraversare il mare. Solo quando, tra urla e spintoni, la gente che era sul molo ha iniziato a gettarsi dentro mi sono rassegnato, quello era il mio barcone. Ci siamo stretti sul ponte, a poppa e prora, seduti uno vicino all’altro, una parte è salita sulla piccola pensilina in metallo che copre la cabina del timoniere. Quando il battello si è staccato dal molo, mentre gli uomini armati di bastone picchiavano selvaggiamente alcuni ragazzi che cercavano di gettarsi ancora nella barca, si sono levate grida «Dio è grande» e ci hanno spruzzato d’acqua, una benedizione.

Era una notte leopardiana, fitta di stelle e di luna. Appena usciti dal porto, un battello dietro l’altro come una flotta, le luci accese festosamente, ho sentito il ponte coprirsi d'acqua che arrivava e si ritirava ritmicamente bagnandoci scarpe e vestiti; fitti come eravamo impossibile spostarsi o cercare riparo. Era il mare, che scavalcava le basse murate e se ne impadroniva placidamente ogni volta che la barca scalava e scendeva le onde ancora morbide di una notte perfetta. È stata la prima volta che ho avuto paura. Poi ho visto Karim che stava seduto al mio fianco e gli altri; ed eravate tutti allegri come lo sono i ragazzi quando imboccano la strada di una nuova vita e sono sicuri di essere immortali. Ho pensato che avevate ragione voi, che niente poteva fermare questa grande avventura di uomini che avevo deciso di esplorare così da vicino.

Angosce primordiali

Attraversare il mare con cento clandestini è come ritornare indietro in noi stessi. Oggi abbiamo paura di cose impalpabili, le malattie non ancora vinte, la nube nucleare, la povertà che ci agguanta. Qui invece si torna alle angosce elementari, primigenie, si ha terrore del mare del vento delle onde, numi iracondi ma che pensiamo di aver addomesticato. Ci siamo scambiati durante il viaggio cose semplici, l’acqua e il pane, la comunione eterna degli umili, dei poveri, dei naviganti antichi. Non è il rischio di morire e l’essere scampato, che mi ha affratellato a questi 112 esseri umani, che ha assorbito come una spugna i miei pregiudizi su di loro, è il viaggio stesso, la visione per 22 ore della sofferenza a cui si sottopongono, che pagano. Non è una grande cosa, la mia evoluzione, in fondo, il vero miracolo sarebbe di compierla, questa sacrosanta pulizia dei pregiudizi, senza dover rischiare la vita per accorgersene.

Il motore si blocca

Il primo avviso è venuto alle sette e trenta, c’era la luce diafana del giorno e qualche delfino che ci seguiva credendo fossimo un vero peschereccio e non una nave che aveva pescato uomini. I tunisini li indicavano felici, non c’era alcuna paura a bordo, anche se sono gente dell’interno del Paese, della zona delle miniere e del deserto, terragni che da mille anni scavano e sudano e il mare l’hanno assaggiato e visto per la prima volta ora che viaggiano verso il destino. È stato allora che, di colpo, il motore si è fermato, getti d’acqua bollente hanno iniziato a schizzare sul ponte. Il mare, anche su una barca così misera, quando il motore funziona e agguanta le onde una dopo l’altra, lo senti meno cattivo, quasi sicuro. Ma quando il battello si arresta, senza forza, allora le onde cominciano a giocare perfidamente, sembra ti circondino e siano diventate padrone.

Il pilota era un uomo massiccio, dai baffi già bianchi di nonno, si faceva largo tra la gente assiepata, indifferente, come se camminasse nell’erba, senza badare a braccia gambe piedi. È sceso nel pozzetto impugnando un cacciavite, solo un cacciavite, solennemente, come se fosse la spada di Orlando. Ha svitato, riavvitato, avvinto con corde pezzi del motore, sistemato tra gli stantuffi bottiglie di plastica zeppe di grasso, tra sbuffi di fumo e gemiti sinistri. Tutti guardavano, adesso con angoscia il suo traffichio, non c’era più gioia sul battello. Mi hanno spiegato che il motore alimenta anche la pompa di aspirazione dell’acqua che entra nella stiva. Se si ferma è inevitabile affondare. In mare aperto, senza radio, senza telefoni satellitari, impossibile chiamare soccorso e sperare. È così per ogni viaggio, i clandestini di Lampedusa sono dei condannati a morte cui talvolta la pena è abbuonata.

Il pilota è uscito dal pozzetto lercio d’acqua e di grasso e il motore ha ripreso a guaire normalmente. Due volte ancora è accaduto durate il viaggio, mentre sfilavano le ore e il giorno si disfaceva di nuovo, con noi sempre in alto mare. Ancora due volte il cacciavite ha funzionato, miracolosamente.

Karim e il sogno di Parigi

Avevo immaginato che durante il viaggio avrei parlato con loro, che avrei scoperto perché partono e accettano così semplicemente il rischio della vita. Invece una barca di dieci metri con 130 passeggeri è muta. Così accucciati puoi vedere solo i due che ti stanno accanto, gli altri sono una massa che di notte ha volti cinerei come un mistico quadro barocco, di cui avverti il fremito e l’odore. È per questo che ho voluto bene a Karim che era alla mia destra, perché stava male e aveva grandi occhi buoni e mi ha detto che voleva andare a Parigi dopo aver lasciato Lampedusa, «è una città piena di tunisini, di parenti e amici con cui sono in contatto e che possono trovarmi un lavoro». Lo ha detto con un po’ di vergogna: in realtà lui «non sa fare niente», ha solo le braccia e la buona volontà. In Tunisia non servono a niente ma in Europa chissà… «Cosa ne dici tu che sei sahafi e italiano? Faccio bene?».

A sinistra avevo Nurad. Forse non si pronuncia così, ma il rumore del motore era forte e bisognava quasi gridare. Lui il lavoro ce l’ha perché è meccanico, anche in Tunisia se vuole. Non andrà in Francia come quasi tutti sulla barca, arriverà a La Spezia perché lì c’è la sua fidanzata italiana e il suo bimbo che ha un anno e mezzo. E se gli chiedi perché non la sposa e così diventa italiano senza problemi, gli occhi si fanno incerti: «Sai, problemi di visto…». Meglio non violare questo pudore: forse i problemi sono altri, ma si ha il diritto di esigere la verità da qualcuno che rischia di morire?

Su una barca di clandestini, te ne accorgi dopo qualche ora, c’è una gerarchia feroce, ci sono quelli forti, che comandano, che sono amici con il pilota e stanno seduti comodi nella parte dove l’acqua non arriva e il vento non ti piega in due. E poi ci sono gli altri; quelli che stanno in fondo a prora, immersi nell’acqua, dove le baguettes e le bottiglie di acqua arrivano rare. E che fanno il viaggio, ventidue ore, immersi in quella abulia spessa che sostituisce il sonno. Sono quelli che non hanno mai il coraggio di chiedere quando finirà la loro sofferenza, se ci sono pericoli, e che cosa li attende.

«Non li fermeremo mai»

Ho fatto il Viaggio per l’arrogante volontà di capire perché un popolo di ragazzi rischia la vita per sbarcare da noi, per afferrare l’Europa. Non dovremmo usare più, per loro, la parola clandestini: inganna, svia, dovremmo restaurare la antica cara nostra parola di emigranti. Perché non è soltanto e soprattutto la miseria che li muove. Certo l’hanno mangiata da sempre, ma in Tunisia non c’è la fame. È altro che li spinge, una forza che sempre ha mosso i giovani a muoversi a cambiare a sognare, cercano un’altra vita e basta, vogliono sognare e provare. Sanno che l’Europa sarà altro, fatica disperazione umiliazioni povertà, che se la buona fortuna arriverà sarà per pochi. Ma partono lo stesso perché siamo noi lo spazio vuoto che vogliono attraversare. «Io amo come vivete, i Paesi arabi sono immobili, forse ora cambieranno ma ci vorranno anni – mi ha detto Karim – per questo parto, poi chissà». È la forza che ha creato nuovi Paesi o ne ha rinsanguato altri esanimi. Non li fermeremo mai con i nostri muri fatti di cocci d’uovo, con le nostre avarizie di popoli sazi e stanchi.

Quando per la quarta vota il motore si è rotto, senza rimedio, era notte fonda e lontanissime si intravedevano le luci, Lampedusa. La barca ha cominciato ad affondare. Siamo stati salvati, tutti, con efficiente dedizione, dalle unità della Guardia Costiera. Sono addestrati, e si vede, dall’esperienza e non solo dai manuali. Anche ieri eravamo l’ennesimo intervento in una giornata fitta di arrivi e di barche egualmente moribonde. La barca senza nome l’abbiamo guardata affondare lentamente nel buio senza rimpianti. Ieri sono andato al campo di accoglienza dove li hanno ospitati in attesa di farli partire. Li ho visti da lontano, alcuni miei compagni, ridevano forti, felici. Ho rinunciato a entrare. Il loro viaggio è solo all’inizio, il mio è finito.

di DOMENICO QUIRICO
INVIATO DA ZARZIS A LAMPEDUSA

Fonte: La Stampa

16 marzo 2011

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