Il mestiere del cooperante


AGI Mondo ONG


Una professionalità sempre più elevata e specifica. Per i giovani una possibilità di coniugare lavoro e impegno civile. Una sfida anche per le università. Il punto di Lele Pinardi sul convegno di Link 2007.


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Il mestiere del cooperante

Il cooperante, un mestiere difficile che richiede una professionalità sempre più elevata e specifica. Ma il mondo della cooperazione offre anche ai giovani la possibilità di coniugare lavoro e quell’impegno civile cui sono chiamati a rispondere come individui di fronte a contraddizioni e squilibri che emergono -questi sì globalizzati!- da un modello di sviluppo che non tutte le società possono sostenere. Una prospettiva di lavoro che richiede il coinvolgimento delle Università, degli istituti superiori di formazione e degli organi di informazione. Eccoci dunque al secondo appuntamento con 'Un mestiere difficile'. Abbiamo tentato di dare continuità a questa sorta di osservatorio sulle risorse umane nelle Organizzazioni non governative (Ong), per riflettere non soltanto sui numeri -comunque importanti- ma anche sui contenuti e sulle caratteristiche della professione di cooperante.
Già definire una 'professione' quella dell’operatore della cooperazione non governativa, pone problemi. Dove sono finiti i 'bravi volontari' con le loro solide motivazioni? Ci sono, eccome, e con le loro motivazioni: salde e irrinunciabili, almeno quanto richiesto da questo mestiere. Ma bisogna uscire da quell’equivoco linguistico per cui chi fa volontariato è altro, diverso da chi svolge un lavoro 'normale'. Questo non significa che non vi sia spazio per le persone di buona volontà che saltuariamente operano nel volontariato; ma, come quelle stesse persone -fuori di ogni retorica- ben sanno, un conto è spendersi occasionalmente, magari anche con regolarità, impegno e senso di responsabilità, in attività sociali ed assistenziali; un conto è fare del proprio impegno e motivazione l’asse portante della propria esperienza professionale nel no-profit. Sono due visioni per nulla in contrasto e forse anche compatibili, a patto che siano chiare le differenze.
Diventare un operatore della cooperazione internazionale non governativa, non è semplice e richiede un impegno costante, sia in termini di continuo aggiornamento sia per ciò che riguarda la capacità di adeguare le proprie scelte di vita alle opportunità professionali. Anche dal punto di vista strettamente professionale, sempre più servono figure in grado di indirizzare il proprio ruolo tecnico verso la consulenza, la formazione e la valutazione di attività realizzate da partner locali, piuttosto che tecnici direttamente operativi.
Nei ruoli direttivi poi -sempre più richiesti- servono persone in grado di gestire progetti complessi, coordinando, motivando, supervisionando, indirizzando, il lavoro di team internazionali, e gestendo le complesse relazioni tra i differenti attori della cooperazione. Non soltanto project manager, quindi, anche se quella può rappresentare la figura di riferimento. E neppure si può immaginare che siano sufficienti le competenze tecniche o la capacità di relazione con gli altri o di gestione; le conoscenze o le motivazioni. I successi nella cooperazione, anche quelli personali, dipendono da molte componenti e da molte variabili che rendono ancora difficile la selezione degli operatori.
Forse anche per questo, l’aspettativa delle Ong è alta nei confronti dei tanti, forse troppi, master e corsi specialistici nati in questi ultimi anni. Il “sapere” non manca, ma il “saper fare” e il “saper essere” sono ancora in gran parte relegati alle conseguenze dell’esperienza diretta, quando errori e inadeguatezza hanno un costo purtroppo eccessivo.
Forse per questo entrare nel mondo della cooperazione internazionale è così difficile, come dicono molti aspiranti. Più facile passarci un breve periodo, giusto il tempo di un’esperienza.
Riguardo ai numeri, la ricerca sui dati più recenti relativi a età, sesso, destinazione, numero dei cooperanti italiani non si discosta molto da quella presentata nel corso della prima edizione di “Un mestiere difficile”. Anche questa è un’indicazione interessante. Significa che siamo in presenza di un settore con caratteristiche e peculiarità non occasionali, anzi abbastanza stabili e ricorrenti.
La circolazione di questi dati, per altro necessariamente limitata, può anche contribuire  a smascherare una serie di luoghi comuni sulla figura del cooperante e sul lavoro nelle Ong. La prima, lampante evidenza è che le Ong sono certamente promotrici di lavoro di tutto rispetto. La cooperazione internazionale non è precisamente il luogo di impiego (e di impegno) di giovani neolaureati alle prime esperienze. Anche se, per fortuna, non si nasce cooperanti. Lo si diventa.
Nell’edizione di quest’anno abbiamo voluto inoltre tentare la via di alcuni approfondimenti, con obiettivi molto pratici e diretti. Grazie alla collaborazione di Hay Group, e in particolare di Marco Galbiati che insieme con Sodalitas ha lanciato alcuni anni fa l’idea di un Osservatorio sulle risorse umane nel No-Profit (ORUNP), abbiamo avviato un’analisi su una delle figure più problematiche (e ricercate) della cooperazione non governativa: il coordinatore Paese/rappresentante Ong in loco. Una figura certamente manageriale, ma con componenti strategiche e relazionali piuttosto complesse. Siamo in buona compagnia, se è vero che -anche nel profit-  proprio la figura del manager, quello di successo, che “funziona” e che raggiunge obiettivi significativi anche attraverso il contributo di un team di collaboratori, non è di facile definizione.
Qual è la qualità che fa di un manager un buon manager continua a essere una sorta di formula alchemica tra conoscenze, capacità professionali, stili di conduzione e competenze di gestione, skills, esperienze e maturità. Da parte nostra abbiamo avviato un’analisi -che certo non si può considerare esaustiva- per offrire, a chi si occupa di formazione, alcuni elementi di riflessione che speriamo si possano tradurre in un contributo alla creazione di adeguate figure professionali per la cooperazione. A ben pensarci, salvo rarissimi casi, la cosa che sorprende di più dei corsi e dei master esistenti -più in generale, non solo nel settore della cooperazione- è la quasi totale assenza di relazione con gli utenti ultimi della formazione: le Ong. Capita raramente, quasi mai, di sentirsi chiedere: “Di che figure avete bisogno, con quali caratteristiche, per quali compiti?”. Quasi che si trattasse di informazioni scontate o di irrilevante importanza. La domanda più comune è piuttosto: “Sareste disposti a ospitare stagisti? Se desidera le mando una brochure sugli obiettivi del nostro corso…”. E spesso si tratta di obiettivi anche molto distanti dallo specifico delle Ong di cooperazione internazionale.
Da parte nostra, convinti che la collaborazione tra settori e competenze diversi sia la migliore strada per affrontare i problemi, siamo sempre disponibili a lasciarci coinvolgere nella progettazione di un corso adeguato alle aspettative.
Un ulteriore contributo viene dalla pubblicazione, per la prima volta in Italia, dei criteri e degli indicatori del codice di condotta per la promozione delle “best practices” nel management degli operatori  della cooperazione elaborato da 'People in Aid', il network di circa 140 tra agenzie, associazioni, reti e Ong che hanno contribuito alla sua realizzazione e diffusione.
Una cosa è certa: le qualità delle risorse umane sono l’elemento chiave di ogni impresa, certamente della cooperazione. Investire in formazione, facilitare percorsi di avvicinamento alla professione di cooperante, prevedere l’alternanza tra periodi di aggiornamento e di lavoro, sono alcuni degli strumenti assolutamente necessari nell’immediato futuro per valorizzare e finalizzare le motivazioni di quanti ancora credono che un mondo migliore sia, non solo possibile, ma realizzabile, quale diretta conseguenza anche del loro, personale, impegno.

Fonte: OngAgiMondo

30 novembre 2008

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