Il Darfur e i figli della guerra


Enzo Nucci


L’arruolamento dei minori di 18 anni in gruppi armati o eserciti regolari coinvolge in tutto il mondo 250 mila ragazzini, di cui quasi la metà nel continente africano.


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Il Darfur e i figli della guerra

L’arruolamento dei minori di 18 anni in gruppi armati o eserciti regolari coinvolge in tutto il mondo 250 mila ragazzini, di cui quasi la metà nel continente africano. Camerun, Ciad, Repubblica Centroafricana, Nigeria, Nigeria e Sudan hanno firmato lo scorso giugno a N’Djamena un documento comune per fermare l’uso dei bambini soldato, rispettando la convenzione dei diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite. Se gli impegni scritti saranno rispettati, ci troveremo di fronte ad una svolta storica perché i sei stati si impegnano a promuovere programmi di reinserimento dei piccoli combattenti nella vita civile, attraverso l’istruzione ed il lavoro.
Ovviamente questo riguarda soltanto l’arruolamento degli eserciti regolari.
Resta l’incognita del Darfur, dove nella parte occidentale, l’attività dei movimenti armati è ancora intensa, e le varie fazioni continuano ancora ad avere bambini nelle proprie file. Secondo le Nazioni Unite sono 3.500 i piccoli combattenti attivi tra Sudan e Ciad.
Dopo anni di conflitto ed il reciproco appoggio ai movimenti ribelli operanti nei due paesi, Ciad e Sudan hanno firmato l’armistizio nel gennaio 2009. I segnali di pace sono visibili proprio nel processo di smobilitazione che fino ad ora ha coinvolto 820 bambini. Dopo la resa alle forze regolari sono stati presi in carico dall’Unicef con l’obiettivo di restituirli ad una vita normale. I bambini vengono arruolati anche a sette anni quando la loro personalità è in pieno sviluppo. Sono soldati ubbidienti, concentrati , senza sensi di colpa, capaci di fare cose su cui gli adulti hanno riserve. Sono fedeli esecutori degli ordini, affidabili, fedeli, di poche pretese e facilmente influenzabili. Vengono usati come sentinelle, spie, portatori o schiavi sessuali. In cambio dell’ubbidienza assoluta ricevono promesse di fama, onore, giustizia.
A spingerli ad arruolarsi sono spesso le famiglie che ricevono denaro o trattamenti di favore per quanto riguarda la distribuzione del cibo. Ed in ogni caso avere un figlio combattente è un motivo di onore che porta lustro alla famiglia ed al clan ma anche privilegi necessari alla sopravvivenza. Forse proprio queste motivazioni culturali sono quelle più difficili da sconfiggere. Ed in ogni caso un figlio combattente risolve un problema importantissimo: una bocca in meno da sfamare.
Il reportage “Figli della guerra” girato per la rubrica del Tg3 “Agenda del Mondo” ha seguito questi ragazzi dal momento in cui sono entrati nel centro di accoglienza dell’Unicef per trascorrere i 100 giorni necessari ad imparare un mestiere, a leggere e scrivere, fino a quando sono stati ricondotti nelle famiglie di origine, spesso in lontanissimi e sperduti villaggi ai confini con il Sudan.
Tra questi ragazzi ci sono autentici talenti. Come quel ragazzino di 14 anni che è un mago del computer. Ha imparato da solo mentre con i suoi due fratelli di 13 e 11 anni, era sotto le armi insieme al padre. Oggi sogna un futuro come programmatore di computer dopo questa scoperta che gli ha cambiato la vita.
Impegnato in prima linea su questo fronte è il medico triestino Marzio Babille, responsabile Unicef del Ciad, responsabile della struttura. I problemi non mancano perché l’Unicef non dispone di mezzi sufficienti. Fino ad oggi sono stati 820 i bambini soldato restituiti alla vita civile. Il timore è che tutto possa subire una forte riduzione per mancanza di fondi.

Fonte: Articolo21

7 novembre 2010

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