"I frutti ancora non ci sono A Barack chiedo più coraggio nell’azione"


Umberto De Giovannangeli - L'Unità


Il Nobel per la Pace conferito a Barack Obama è stato un investimento sul futuro. Un futuro di dialogo e di pace. Un futuro di “ponti” da realizzare e di “muri” da abbattere. A sostenerlo è l’israeliano Abraham Bet Yehoshua.


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"I frutti ancora non ci sono A Barack chiedo più coraggio nell’azione"

Visto da Israele, il presidente Usa è stato all’altezza di questo prestigioso riconoscimento?
«Non mi sembra che sia già giunto il tempo per emettere giudizi definitivi, tanto meno “sentenze”. Certo le aspettative erano grandi, forse troppo grandi, ma va anche detto che è stato lo stesso Obama ad alimentarle. Non parlerei di delusione ma di un giudizio sospeso. Sospeso in attesa di fatti».

Più volte Obama ha affermato che la soluzione del conflitto israelo-palestinese era tra le priorità della sua agenda internazionale. È stato così?
«L’impegno non può essere misurato dal numero dei viaggi che la signora Clinton (segretaria di Stato Usa, ndr) o il senatore Mitchell (inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, ndr) hanno fatto in Israele, nei Territorio nei Paesi arabi. L’impegno si misura dalla capacità di smuovere le acque stagnanti di un processo di pace che non si schioda dalle dichiarazioni di principio».

Partendo da questa considerazione di fondo, cosa si sente di imputare al Presidente- Nobel per la Pace.

«Non sono un pubblico ministero né ungiudice che deve emettere sentenze o comminare pene…Ciòche posso dirle è che, da estimatore di Obama, mi sarei aspettato, e continuo a farlo, più determinazione, più coraggio nell’azione. Se guardo al Medio Oriente, alle incertezze delle leadership israeliana e palestinese, dico che ci vorrebbe più pressione sulle due parti, e invece ».

Invece?

«Invece il presidente Usa sembra frenato dalla volontà di non produrre scosse, di evitare drammi, ma senza “strappi” è impossibile ricucire poi i fili del negoziato».

Anche Lei è tra coloro che imputano a Barack Obama di produrre bei discorsi ma pochi fatti?
«Vede, come scrittore so bene l’importanza, il peso delle parole. Le parole sono la mia vita. Le parole possono aprire o chiudere i cuori e le menti; possono emozionare, indignare, provocare dolore o alimentare speranze. Per tornare alla sua domanda, posso dirle che resto convinto che le parole pronunciate da Obama nel suo discorso del giugno scorso all’Università egiziana di Al-Azhar, abbiano colto ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore. Ma Obama non è uno scrittore, non è un predicatore, anche se è un grande, grandissimo comunicatore. Barack Obama è un leader mondiale. E come tale è “condannato” a dare un seguito concreto alle sue parole. Ma di questo il presidente Usa è pienamente consapevole, e ciò è beneagurante ».

Tra i critici di Obama sono in molti, riferendosi all’invio di altri 30mila soldati in Afghanistan, a sottolineare che a ricevere il Nobel per la Pace sia il capo di una nazione impegnata in due guerre.

«Non condivido questa critica. La trovo sbagliata, oltre che ingenerosa. E dico questo avendo ben presente il Nobel per la Pace conferito ad un uomoche per buona parte della sua vita aveva combattuto i nemici del suo Paese, ma che proprio perché aveva combattuto era giunto alla convinzione che la sicurezza d’Israelenon poteva essere affidata solo alla forza del suo esercito. Quell’uomo era Yitzhak Rabin, un “generale” di pace. Obama non è un pacifista romantico, come non lo era Rabin. Ma è un presidente consapevole che l’America può riconquistare la sua leadership politica, direi “etica”, a livello internazionale, se è in grado di globalizzare i diritti, i principi che sono a fondamento della sua democrazia.E questo non lo si ottiene mostrando i muscoli, anche se la storia insegna, come ha ricordato Obama, che Hitler non sarebbe stato piegato dalla non violenza. E purtroppo anche ai giorni nostri Hitler ha i suoi epigoni, più o meno mascherati, magari da presidente iraniano o da capo di Al Qaeda».

Stando ai sondaggi, Obama non è vissuto come “presidente amico” da una parte significativa, se non maggioritaria, degli israeliani…

«Qui sono totalmente a fianco di Obama. Lo sono perché Obama è l’amico che vorrei a fianco. Al fianco d’Israele. Perché un amico, vero, è anche un amico “scomodo”, quello che ti indica onestamente i tuoi errori e prova ad aiutarti a correggerli, senza mai far venire il suo sostegno quando – come nel caso dell’Iran – qualcuno prova a stenderti… Semmai, al presidente Obama chiedo di esercitare con più determinazione questa amicizia ».

Esercitarla, ad esempio, sulla questione degli insediamenti?
«Io credo che esistaun nesso inscindibile tra la smilitarizzazione dello Stato palestinese, la definizione consensuale dei confini fra i due Stati, Israele e Palestina, e lo smantellamento degli insediamenti che non rientrano nei nuovi confini d’Israele, che non possono essere quelli del 1967. Ed è in questo contesto che io ritengo necessario riconoscere che gli insediamenti israeliani rafforzano l’odio dei palestinesi verso Israele. E l’odio, ha ragione Obama, è il primo “muro” da abbattere” se si vuole davvero un Nuovo Inizio».

Fonte: unita.it
11 Dicembre 2009

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