Ho molto pensato come iniziare a raccontare la nostra missione in Medio Oriente…


La redazione


Pubblichiamo il diario di Nadia Conti, che ha partecipato insieme a quattrocento italiani alla missione di pace Time for Responsabilities in Palestina e Israele dal 10 al 17 ottobre.


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Ho molto pensato come iniziare a raccontare la nostra missione in Medio Oriente...

Ho molto pensato come iniziare a raccontare la nostra missione in Medio Oriente e inizio con  la scelta accurata delle parole e la motivazione di questa valutazione.  Non parlerò mai di un viaggio di solidarietà, o di pace o di dialogo ma di missione. La parola “missione” esprime la forza dell’impegno,  contiene la volontà dell’obiettivo e l’implicità di essere raggiunto.

Eravamo tutti consapevoli che il nostro obiettivo non erano le nostre azioni per la pace.  Come si può avere la presunzione di pensare che 400  italiani dalle varie età e dalle varie attività: volontari, cooperanti, studenti, rappresentanti di enti e istituzioni,  abbiano la possibilità di incidere su un conflitto che da sessant’anni mette a rischio l’equilibrio mondiale? L’obiettivo  era costruire una rete di persone, esseri umani, pronti a testimoniare e a capire. Apostoli? Missionari? Paladini?  Sostenitori. Sì sostenitori dell’equità, della giustizia, del rispetto dei diritti umani, della dignità.

La missione è stata faticosa, angosciante, umiliante, frustante ma al tempo stesso ci ha consentito di prendere coscienza che oltre al nostro comodo e piccolo mondo esistono deserti, miserie e angosce costruite dall’uomo per l’uomo.  Ci ha permesso di sentirci utili, attraverso l’ascolto delle lingue dolci e sospirare, porgendosi apertamente, sgombri da retro pensieri nelle relazioni umane, aperti al dialogo e la semplicità dei gesti un linguaggio internazionale che solo l’incapacità linguistica sa consegnare:  toccarsi leggermente, sorridere con occhi e il volto per far comprendere la disponibilità, avvicinare gli interlocutori senza timore né troppa espansione per instaurare un rapporto relazionale che rispetti e non invada la sua sfera personale.

Per questo un Diario, un racconto di sentimenti, un diario che farà parte come quello di molti altri di un libro del viaggio: un viaggio che intendiamo portare avanti e far conoscere a tanti italiani ed europei, per non dimenticare che abbiamo scelto di essere persone che credono nell’umanità, con i suoi difetti, pregi, odi, imperfezioni, amore e intelligenze e per la difesa dei diritti umani.

Io e Martina, siamo scese all’aeroporto di Telaviv e immediatamente ci siamo rese conto di essere in posto del mondo speciale. Il cielo sopra di noi, alle quattro del mattino era viola, un bellissimo color indaco che mai mi sarei immaginata di vedere. La luce che sarebbe a breve apparsa stava penetrando nel blu della notte, dando al cielo sopra di noi, quel bellissimo colore che solo mani esperte e antiche sanno creare.
Non mi sono più di tanto scomposte quando una soldato israeliana, non guardandoci negli occhi, fermava chi prima di noi aveva passaporti con visti di Paesi Arabi, era nei fatti.
Non mi sono chiesta del perché del loro assetto, divisa e quant’altro, forse eccessivo per un aeroporto. Credo che anche questo fosse “normale” per un Paese che deve difendersi e che fino agli estremi impegna ogni sua risorsa alla sicurezza. Israele è l’unico Paese in Medio Oriente che possiede l’arma atomica. Poi il viaggio in autobus verso l’albergo, e vedo sbalordita un checkpoint, il muro e delle torrette, di nuovo dei giovani armati, voci taglienti e nervose che ci chiedono i documenti, occhi roteanti, puntiformi e sfuggenti.  Non so cosa abbia pensato Martina ma per me anche questo era nonostante tutto quasi normale, era “la dogana” tra Israele e la Palestina.
Appena arrivate in albergo, dopo un po’ di peripezie, ci siamo recati a Betlemme, la culla della natività, per i saluti alla municipalità. Lungo il percorso vediamo case abbattute, macerie, rifiuti che bruciano per strada. La città vecchia è però bellissima e normale, con il suo mercato, le persone che ti sorridono, una città viva, quotidiana, bella con i suoi odori di spezie e i loro colori: ocra, bordeaux, magenta, azzurro e verde. Uomini, donne, bambini e soldati con piccoli fucili e divise “normali”, che silenziosamente si avvicinavano a noi,  ma il loro sguardo era scanzonato, tranquillo, felice di vederci. Le mappe dei territori poi ci invadono, le linee dei confini verde, rossa, grigia si sovrappongono, le percentuali che restano alla Palestina sono lì, davanti a noi.
Ma non è solo una questione di terra.

La sera ci viene comunicato che saremo divisi in sei gruppi, la mattina dopo la sveglia è alle 5, partenza ore 6 per Bil'in. L’autista del pullman la mattina, subito ci comunica che lui non ha nessuna intenzione di accompagnarci per strade impervie e non è disponibile a passare tra i checkpoint che dividono i territori palestinesi dai territori israeliani e tra questi e i territori occupati.  Con noi c’è Luisa Morgantini che insiste e cerca dei compromessi. L’autista ci porterà nei luoghi che desideriamo vedere, ma ci scenderà un po’ prima (quanto prima pensavamo e perché?). Luisa ci spiega che i Palestinesi non conoscono più il loro territorio, che essendo ormai diviso e suddiviso tra strade e muri, i giovani non si addentrano più nei paesi e nei villaggi che così restano isolati e facilmente espropriabili, mangiati a poco a poco, dai coloni israeliani. Che mangiando trasformano in un altro mondo, è una strategia lenta ma che trasforma quei luoghi rocciosi, sterili, essenziali  in aree verdi lussureggianti di colori e di fiori, con abitazioni ad alveare, bianche e nocciola. Prima occupano le colline poi scendono, scendono, scendono con l’acqua che deviano,  chiudono, si dedicano, riaprono e intubano. In contemporanea il governo israeliano costruisce per loro strade asfaltate a più corsie, protetti gli uni e le altre dal muro che avanza lentamente e divide la casa, il villaggio palestinese e i suoi rifiuti dalle sue  proprietà e dai campi di ulivi che non possono più coltivare.  

I pensieri avanzano, forse non solo nella mia testa, come pietre, le pietre angolose e spigolose di questa terra. Usciamo da Betlemme, ora il checkpoint, dobbiamo farci controllare per avere il permesso di  percorrere la strada costruita dagli israeliani per raggiungere i villaggi dei palestinesi, dopo Gerusalemme e  oltre Ramalahl. Il nostro pulmann ha la targa di israele gialla, quella dei palestinesi è verde, non ne vedremo mai nessuna nel territorio gestito da Israele. Ci fanno scendere, percorriamo un corridoio stretto e lungo di cemento armato. Dall’alto ci guida un ragazzo di colore, con un fucile enorme, dalle sue tasche si vedono alcune grosse pigne nere, non di ferro, ma di gomma nera. Arriviamo ad una fila di persone chiaramente di origine palestinese, uomini che si recano a lavoro a Gerusalemme, vedo dei giovani, una donna e un bambino. Dopo pochi minuti si apre un nuovo cancello e il ragazzo soldato ci indica di passare dalla nuova entrata. Perplessa guardo l’altra fila e vedo che viene chiusa, vedo gli occhi smarriti dei palestinesi, così facendo loro da primi sono diventati ultimi. Ci fermiamo e con gli occhi, alcuni di noi,  decidono di farli passare. Gli operai ci ringraziano, ci sorridono ma fanno cenno di no e ci invitano ad andare avanti. Io ho pianto. Passano i giovani e la donna con il bambino. Li guardo e non sono l’unica, quest’immagine, come una foto, mi seguirà o mi perseguiterà… per tutta la missione, diventa il simbolo, la forma concreta dell’angoscia. Il bambino di circa 5 o 6 anni si stringe alle gambe della madre, lei cammina con lui così, avvinto al suo corpo, con il viso colmo di lacrime, senza alcun suono. Il ragazzo soldato ci urla di entrare da una porta di acciaio girevole con delle sbarre che oltrepassiamo, uno alla volta. Ci evita così la perquisizione, togliersi le scarpe, slacciare le cinture, appoggiare nei cestelli chiavi, cellulari, bracciali, non passare da rilevatori che suonano se il reggiseno ha i ferretti, se il velo ha dei fermagli, se i pantaloni hanno dei bottoni metallici. Prima di entrare dalla porta di “prima classe” guardo i palestinesi. Il giovane palestinese si toglie la cintura, ma non basta, la donna le scarpe ma non basta, quando usciamo il giovane piange mentre si riveste, il bambino non riesce a controllare il tremore del suo corpo. Accarezzo con lo sguardo la giovane madre e saluto il giovane toccandogli un braccio, sussurandogli un amaro e inutile: coraggio. Avrei voluto urlare il mio sdegno! Non si può togliere la dignità ad un uomo, non si può, non è giusto! Non è giusto per un bambino crescere senza protezione! Che uomo potrà diventare, quale rancore coltiverà quotidianamente nel cuore? Domande, domande, che vorticosamente si affacciano nella mia testa e mi chiedo il significato del pianto del giovane. Era d’impotenza, di tensione, di umiliazione o scelta di  non rispondere alla persecuzione, così come gli operai non avevano risposto, facendoci passare e negando, pur con il sorriso, l’evidenza dell’ingiustizia?  Rassegnazione? Non si sorride se si è rassegnati. L’unica risposta è: non rispondiamo alla violenza.

Non violenza, quindi. L’unica risposta, l’unica! Per sentirsi forti e uniti. Gli israeliani è chiaro, non si pongono né dubbi, né scrupoli nel diverso trattamento che veniva riservato a noi e a loro. “Loro”.

Eccoci sulla strada costruita dagli israeliani, “loro”, i palestinesi che hanno un lavoro a Gerusalemme, possono utilizzarla solo se muniti di permesso e se arrivano tardi possono perderlo, hanno delle sanzioni, non hanno più “card” per resistere. Fuori dal muro, li aspettano delle auto, dei furgoni per accompagnarli nei luoghi di lavoro. Fanno i muratori, spazzini, giardinieri in quei territori che una volta erano anche i loro. I palestinesi oggi, ne hanno mantenuto una piccola parte, il 22%, ma questo 22% è diviso zone separate le une dalle altre da muri e strade, “a macchie di leopardo”, isolate e controllate dai militari israeliani e dai checkpoint. Sono 482 i villaggi palestinesi distrutti e 4.500.000 i palestinesi che hanno dovuto abbandonare le loro case, alcuni di loro ne hanno ancora la chiave, ma non esistono più le loro abitazioni che distrutte sono diventate nuovi insediamenti per i coloni israeliani che cancellano ogni traccia del passato costruiscono residence e oasi che nulla hanno del villaggio rurale tipico palestinese. Passiamo davanti dalle loro case, là sulle colline pronti a scendere, protetti dai muri altri più di otto metri, tutelati dai soldati e certi di essere nel giusto. Alcuni di noi hanno provato a parlare con loro, ma non si può dialogare con chi prende in mano un fucile e un giovane dagli occhi arrossati ha ribadito che la terra era “loro”, è tutta loro, la terra di Abramo, fondatore del popolo di Israele.
La nostra visita è continuata verso un villaggio di contadini, Nil’in, era il giorno della raccolta delle olive organizzata da un’associazione impegnata nella difesa delle coltivazioni palestinesi, con noi anche il Primo Ministro. Il Paese, un gruppo di case con uno spaccio, un ortolano e una grande aerea comune ci ha accolto. Tutti raccoglievano le ulive, donne, uomini, militari, bambini e anche noi. Tutti eravamo lì,  per non far distruggere il raccolto dai coloni e alla fina come ogni raccolto merita, il pranzo che sappiamo essere il tipico cibo del contadino (una focaccia con sopra del pollo e il tutto condito con una spezia rossa di cui non so il nome), quindi caffè alla cannella. Siamo stati ospiti di questa comunità in modo spontaneo, non ci capivamo ovviamente, ma gli anziani erano contenti e più di una volta incrociando  i loro occhi ci hanno sorriso e appoggiato una mano sul cuore. L’aia, era piena di fiori, bouganville arancio, bianche e rosse. Un’anziana era vestita di giallo in un bellissimo vestito tradizionale fiera di farsi fotografare e dietro al tavolo dove il Ministro ha salutato la comunità c’erano dei grandi murales, una rosa rossa, dei giovani palestinesi in divisa, il sole e la bandiera palestinese.
Mi sembrava di essere a casa se non per quella spezia magenta che non credo assaggerò più.
Eccoci a Bil’in, Luisa ci spiega sul pulmann che il villaggio è abitato solo da una famiglia, a cui hanno ucciso un figlio circa un anno fa, lei e dei ragazzi israeliani e palestinesi lo hanno sepolto proprio fuori dal villaggio, oggi chiuso da filo spinato e da un cancello che i familiari non aprono mai. Il bus ci lascia un po’ lontano e ci incamminiamo verso il villaggio, via via che ci avviciniamo sento la gola diventare arsa e un odore pungente e nauseante ci avvolge, vedo una tomba e il cancello aperto del villaggio e rifiuti ovunque. Davanti, di fronte a noi, ecco di nuovo una barriera alta 7 o 8 metri forse elettrificata, una strada, di nuovo la barriera e due soldati che la controllano. Al di là, ci spiegano ci sono i campi del villaggio, a volte i soldati permettono ai palestinesi di andare nei loro campi a coltivarli e a prendere le ulive. La porta del villaggio è aperta per noi in segno di ospitalità, ma appena uno di noi oltrepassa la sua soglia, il padre palestinese urla, e anche senza comprendere il significato delle sue parole, capiamo che non vuole che oltrepassiamo il cancello. Vicino al cancello, bombe lacrimogene, decine e decine. Ha paura per i sui piccoli figli e per sua moglie. Di nuovo mi domando, cos’è questa? Rassegnazione? Paura? Ma perché ha aperto il cancello?
Usciamo dal villaggio dagli ulivi secolari, dalle pietre spigolose e dall’odore della guerra per incontrare l’Associazione, composta da palestinesi e giovani israeliani, che ogni venerdì si recano al muro per rendere evidente in modo pacifico il loro dissenso, per difendere i diritti negati al popolo palestinese, per la giustizia e la libertà. E’ il Comitato Popolare di Bil’In (http://www.bilin-village.org). Con loro un ragazzo israeliano, un giovane forte dai capelli rossi, simpatico, dice che il popolo israeliano non si sta rendendo conto, a scuola non si studiano i confini reali di Israele, quelli definiti nel ’47, molti giovani e molti coloni non sanno che cos’è la greenline, le zone A, B, C,  che gli israeliani sono democratici e che non si rendono conto delle ingiustizie, degli abusi che stanno subendo i palestinesi. Una forte pressione verso il Governo, una denuncia pacifica, chiedere le applicazioni della legge, della costituzione israeliana è ciò che lui e altri giovani stanno cercando di fare, come Mohammed Khatib,  segretario del Consiglio municipale di Bil’in e membro eminente del Comitato popolare contro il Muro e la colonizzazione.  “Il governo israeliano ha deciso di accrescere la repressione durante le manifestazioni e forse perché iniziano a rendersi conto che la lotta nonviolenta si estende a tutta la Palestina e dimostrano la sua impotenza verso chi lotta attraverso la non violenza o forse Israele teme la possibilità della creazione di una società fondata sulla giustizia e l’eguaglianza”.  
Dopo questo incontro, ho portato a termine, anche se in quel momento non lo sapevo, la mia missione.
Tornati a Betlemme, quella sera e i giorni seguenti,  guardandomi allo specchio mi vedo sempre più vecchia, vedo gli occhi infossati e le sopracciglia sempre più basse, le palpebre pesanti.
Mi rifiutavo di scrivere e di pensare, cercavo solo di eliminare rancore, rabbia. Mi imponevo una gentilezza che male si amalgama al mio carattere passionale, una comprensione che oggi definisco “ipocrita”, una tolleranza che veniva dalla testa e non dal cuore e per questo sterile, fredda, “odiosa”. Fino a quando non ce l’ho fatta più e ho visto l’inferno. La sabbia, la terra rossa di palestina, terra santa, dove ogni luogo anche il muro del pianto da’ dolore, da’ angoscia:  il sepolcro, la pietra dove Gesù è stato preparato alla sepoltura, le persone che parlano urlando, le auto che passano indisturbate in una città che dovrebbe essere il simbolo della sacralità e dove il silenzio, la riflessione, dovrebbero permettere la meditazione, l’amore, l’apertura al mondo, agli altri. Ho pregato. Per questo mondo, per i palestinesi, per gli israeliani, per il futuro e per noi.

La conclusione del nostro viaggio è stata la visita al Museo dell’Olocausto e non ho trovato risposta secondo me, equilibrata,  al trattamento che oggi viene riservato ai Palestinesi da uno dei popoli che hanno subito la tragedia dello sterminio e la strategia dell’annullamento. Il senso di colpa, da italiana ed europea, dell’indifferenza di allora non mi appartiene. Il museo, luogo che appartiene ai valori e ai principi delle generazioni che vivono oggi nel mondo, non può essere la spiegazione e la risposta di un popolo verso un altro popolo. Possiamo piangere per ogni donna, ogni uomo, ogni bambino che con l’indifferenza, omertà, irresponsabilità è stata uccisa, ma se non ci ribelliamo all’indifferenza e all’impotenza continueremo ad uccidere.
Non può esserci né riconciliazione né perdono senza speranza e la speranza l’abbiamo vista, è nelle parole di quel giovane israeliano che protesta contro i muri, per i diritti umani, con la passione della giustizia e la voglia di cambiare il mondo insieme agli altri, ai palestinesi.

La risposta alla missione è la denuncia, è la non violenza, è la protesta, è la difesa dei diritti universali e spero che in questo cammino giovani come Martina ci accompagnino, a noi nati dopo e cresciuti sui principi e i valori che hanno abbattuto i muri e costruito sogni da realizzare.

di Nadia Conti

27 ottobre 2009

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