Haiti, viaggio nell’inferno del mondo


Francesco Semprini


La Repubblica deve eleggere il Presidente, ma in strada si muore. La gente punta il dito contro le Ong: “Dove sono finiti i soldi?”


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Haiti, viaggio nell'inferno del mondo

Un’orchestrina creola accoglie i passeggeri in arrivo all’aeroporto Toussaint Louverture di Port-au-Prince. Ne arrivano centinaia ad ogni ora del giorno: domenica nel Paese caraibico si vota per eleggere il nuovo Presidente e gli haitiani che vivono all’estero tornano per andare alle urne nella speranza di cambiare le sorti della nazione. Assieme a loro sbarcano giornalisti, osservatori internazionali e volontari delle tante associazioni che operano sull’isola.

Quella musica a metà tra lo swing e l’etnico vuole essere di buon auspicio ed esorcizzare il destino dannato di questo popolo senza pace. Nel corso dei dieci mesi trascorsi dal terremoto, che ha causato 250 mila vittime e lasciato 1,3 milioni senza casa, gli haitiani hanno dovuto fare i conti con un’alluvione, un uragano e una ricostruzione di cui non sembra esserci traccia. Sulle piste dello scalo non ci sono più i C130 militari o le truppe americane in assetto antisommossa, ma basta uscir fuori per capire di essere di nuovo nel cuore di tenebra caraibico.

Il tenente colonnello Nicola Mangialavori ci viene a prendere tra la folla di disperati che si accalca all’entrata dello scalo.

L’ufficiale coordina il contingente di carabinieri inviato sull’isola nell’ambito del Minustha, la missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite. Ci fornisce un primo quadro della situazione colera. Secondo i dati ufficiali l’epidemia ha causato già 1523 morti e colpito oltre 20 mila persone. Le stime più pessimistiche parlano di un numero potenziale di 400 mila contagi entro le prossime settimane. «Il problema principale è l’acqua», ci dice il colonnello, e non solo quella corrente perché alcuni esami hanno rivelato la presenza del batterio anche in bottiglie sigillate prodotte localmente.

Nonostante le smentite delle autorità locali, l’emergenza colera iniziata circa un mese e mezzo fa nelle zone del Nord è penetrata come un lampo nella capitale dove trova terreno fertile tra tendopoli e baraccopoli. Una prima ricognizione di Port-au-Prince ce ne dà la conferma: sulla Rue Delmas poco sembra cambiato rispetto al dopo-sisma, le macerie sono state spostate ai margini delle strade e gli edifici diroccati sostituiti da baracche in lamiera, mentre i pochi negozi aperti sono presidiati da guardie armate.

Senza lavoro e senza casa, i giovani vagano da mattina a sera per le strade accalcandosi intorno alle immancabili bancarelle con la scritta Digicel che vendono cellulari, e ai tanti «barber-shop» improvvisati. Nella zona del centro la situazione appare ancora più grave, la cattedrale si trova esattamente nelle stesse condizioni del 12 gennaio, neanche la fede ha dato la forza o il denaro necessari a ricostruire. Sulle macerie del palazzo presidenziale è stata montata una rete con i manifesti dei 19 candidati alla presidenza. Davanti inizia la tendopoli più grande della capitale, un mare di teli che si estende verso il porto interrotto a tratti dalle macerie della Grand Rue, dove a gennaio era avvenuto il ritrovamento degli ultimi miracolati dal terremoto. Da qui a Cité Soleil, il quartiere ghetto roccaforte delle bande, si estende l’epicentro urbano del colera. Il milione e mezzo di persone che vi ha trovato rifugio dopo il sisma sopravvive in condizioni di completo degrado. Uomini e donne, vecchi e bambini si aggirano come zombie di Romero tra le macerie a ridosso del ministero della Sanità e le grandi pozze create dall’alluvione. Sulla Carrefour Feuilles i bisogni si fanno rigorosamente per strada, vicino a dove le donne prendono l’acqua per dar da bere ai propri figli, e dove su bracieri di fortuna si riscaldano minestre di verdure rimediate per strada: in un posto come questo il batterio del colera non può che trovare un alleato. La situazione all’ospedale centrale è desolante: c’è il tutto esaurito anche perché solo una parte della mastodontica struttura è agibile. Dalle porte socchiuse di alcuni reparti si intravedono malati attaccati alle flebo o a bombole di ossigeno, mentre il resto dell’ospedale è completamente diroccato o occupato da senza tetto o sciacalli.

I carri funebri fanno avanti e indietro tra obitorio e camposanto mentre dai forni crematori fuoriesce fumo acre che spezza a tratti il tanfo delle bidonville circostanti. E pensare che l’ospedale era una delle strutture destinata a essere rimessa a posto per prima grazie agli aiuti internazionali. «Aiuti, di quali aiuti stiamo parlando?», dice Robert, l’autista che ci scorta nel nostro viaggio in questo girone infernale. «Se sono arrivati questi soldi c’è chi ha pensato di intascarseli per farne l’uso che voleva». A chi si riferisce? «Alle Ong, a certe Ong, loro hanno in mano quest’isola e fanno come vogliono». Questo genere di critica non è nuovo: il 28 novembre si vota ad Haiti, ma la fiducia nella politica e nello straniero è ai minimi. Oltre al risentimento nei confronti dell’Onu, in particolare alle truppe nepalesi considerate la causa dell’epidemia e contestate in ripetuti scontri per le strade della città, c’è una certa ostilità proprio per alcune organizzazioni non governative. La campagna di alcuni candidati è stata incentrata nella promessa di «ridurre l’influenza di alcune Ong» che hanno dato vita a un «governo ombra» sull’isola. «A sei settimane dallo scoppio dell’epidemia mi aspettavo una risposta più efficace e reattiva dalla gran parte delle organizzazioni internazionali e delle agenzie Onu», spiega Stefano Zannini, capo missione di Medici Senza Frontiere che assieme alla cooperazione cubana ha risposto «al 90% dei casi di contagio» grazie ai 22 centri e alle quattro unità presenti in cinque su dieci dipartimenti del Paese. Uno dei più attivi è quello di Carrefour Vincent, a Sarte, una struttura da 400-500 posti. «Da noi arrivano dai 20 ai 40 pazienti al giorno, ma presto saranno cento», spiega Virginie Cauderlier, responsabile del campo, confermando la gravità della situazione. Le cure durano sino a cinque giorni, ma vi sono decessi dovuti a complicazioni per altre malattie. Entriamo nelle tende dei malati, ci catturano gli occhioni scuri di Antoine, cinque anni, due flebo attaccate al braccio. Era uno dei piccoli zombi della Carrefour Feuilles, è stato raccolto da Msf quasi completamente disidratato. Sta meglio, tra due giorni verrà dimesso ma per lui non sembra esserci altra sorte che tornare nel girone infernale della tendopoli.

Fonte: laStampa

26 novembre 2010

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