Fine della dottrina dei “bombardamenti umanitari”


il Manifesto


Afghanistan. Nel 2001 fummo tra i pochi ad opporci alla guerra in Afghanistan. Restammo isolati anche nella sinistra radicale Usa. Non dobbiamo far prevalere il principio della non interferenza, ma favorire interventi civili.


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È appropriato confrontare la caduta di Saigon nel 1975 con quella di Kabul, perché entrambi gli eventi segnano una pietra miliare nelle relazioni internazionali.

Chi si rammenta il momento in cui l’ultimo soldato americano ha lasciato Saigon non prova certo oggi gli stessi sentimenti: dopo lunghe guerre coloniali e imperialiste, i Vietcong emergevano come un gruppo capace di prendere in mano il paese e di avviare la ricostruzione.

Nessuno oggi nutre la stessa fiducia nei confronti dei Talebani e se molti erano felici di celebrare la liberazione del Vietnam, non c’è stato nessuno che ha pronunciato le parole «liberazione dell’Afghanistan».

La precipitosa fuga dell’esercito più potente del mondo e la dissoluzione dell’armata nazionale che avevano per un ventennio formato, finanziato e armato, segnano tuttavia un nuovo cambiamento irreversibile nelle relazioni internazionali: il progetto di nation-building nei Paesi in via di sviluppo che i Bush, i Clinton, i Blair, Macron e compagnia cantante hanno propinato è definitivamente defunto per manifesta incapacità dell’Occidente di portarlo a termine.

Somalia 1992, Iraq 1991, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2011: un disastro dopo l’altro. Tutti questi Paesi, spesso in preda a sanguinose guerre civili combattute con le armi messe a disposizione degli stati del Nord (occidentali), si ritrovano oggi in una condizione uguale oppure addirittura peggiore a quella esistente quando gli Stati uniti e gli alleati a rimorchio hanno deciso di bombardarli.

Chi si è opposto a questo avventurismo militare è stato vilipeso e offeso come anima bella pacifista, insensibile alle sofferenze e all’oppressione subita dai popoli.

Bisognava ripeter ogni volta che il problema non era la legittimità dell’intervento, ma la capacità dell’Occidente di ottenere i suoi obiettivi con un armamentario militare rimasto fermo alle tecniche della Seconda guerra mondiale.

Vent’anni fa, insieme alla filosofa femminista americana Iris Marion Young, fummo tra i pochi ad opporci – con un saggio sulla rivista americana Dissent – alla guerra in Afghanistan, sostenendo che il terrorismo non si poteva combattere con la guerra.

La Young, purtroppo prematuramente scomparsa nel 2006, si trovò del tutto isolata non solo nel suo Paese, ma anche tra i suoi sodali della sinistra radicale. Erano tutti convinti che con i bombardamenti gli Stati uniti sarebbero riusciti a costruire un nuovo eldorado lì dove c’erano covi per terroristi.

Rileggo oggi le parole critiche che ci rivolse Michael Walzer: «L’opposizione di sinistra alla guerra in Afghanistan è svanita a novembre e dicembre dello scorso anno (parliamo del 2001, ndr), non solo per il successo della guerra, ma anche per l’entusiasmo con cui tanti afghani hanno accolto quel successo. Le immagini di donne che mostrano al mondo il loro volto sorridente, di uomini che si radono la barba, di ragazze a scuola, di ragazzi che giocano a calcio in pantaloncini: tutto questo è stato senza dubbio uno schiaffo in faccia alle teorie di sinistra dell’imperialismo americano». Sono passati vent’anni e siamo ritornati all’Anno Zero.

Dopo ogni disfatta – e la lista è lunga – non c’è nessuno che sia disposto a riflettere sul peccato originale, ossia che la forza militare non basta a ricostruire un Paese. Gli interventi umanitari si sono susseguiti con compiacenti mass-media che raggiungono le aree dei conflitti grazie ai voli messi a disposizione delle aeronautiche militari, e che mostrano immagini strazianti di bambini affamati e donne umiliate per poi dimenticarsi della loro sorte appena iniziano ad essere evidenti i segni del fallimento.

Ci hanno ricordato che gli Stati uniti hanno speso per la sola guerra in Afghanistan 2 mila miliardi di dollari, circa due terzi del debito pubblico italiano. Gli Stati uniti spendono invece 35 miliardi l’anno in Aiuti per i paesi in via di sviluppo: a questi ritmi, impiegheranno almeno 60 anni per donare al Terzo mondo la stessa cifra sperperata in Afghanistan. Con la differenza che questi soldi non sarebbero usati per uccidere e mutilare, distruggere e stravolgere, bensì per educare, curare costruire strade ed edifici. Di fronte a questi interventi, non ci sono talebani che reggono, perché sono azioni acclamate dalla popolazione.

L’Occidente così prodigo quando si tratta di distruggere diventa tirchio quando si tratta di finanziare interventi umanitari civili: lo abbiamo visto anche negli ultimi mesi con i vaccini per il Covid: in Afghanistan, la popolazione vaccinata non supera il 2,5 per cento. Se questo è il senso di responsabilità delle forze di occupazione, forse si capisce come mai il loro esercito si sia sciolto come neve al sole.

La fuga da Kabul metterà finalmente fine all’insensata idea che i diritti umani si possano esportare con i bombardamenti aerei. Oggi c’è il pericolo opposto, ossia che dopo tale smacco i paesi ricchi si arrocchino nella loro fortezza e si convertano dogmaticamente al principio della sovranità e della non interferenza.

Occorre invece affermare il principio della responsabilità cosmopolitica fondato sugli interventi civili. Mentre i soldati americani scappano, i medici di Emergency continuano a agire. Non sarebbe difficile prendere esempio da loro.

Daniele Archibugi
Il Manifesto
25 agosto 2021

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