Dopo Mubarak, l’America e l’Egitto


Lettera22


Colloquio con Richard Haass del Council on Foreign Relations di New York. Haass è l’interlocutore ideale per chi cerca di capire quale sarà il futuro delle relazioni tra l’America di Obama e l’Egitto post-Mubarak.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Dopo Mubarak, l'America e l'Egitto

New York – Quando si parla di politica estera americana, pochi osservatori sono piu' qualificati del Council on Foreign Relations di New York. Dal 2003, il suo presidente e' Richard Haass. Autore di undici libri di politica internazionale, ex consulente di Colin Powell al Dipartimento di Stato e ex consigliere per il Medio Oriente alla Casa Bianca di George Bush padre, Haass e' l'interlocutore ideale per chi cerca di capire quale sara' il futuro delle relazioni tra l'America di Obama e l'Egitto post-Mubarak.

Mubarak ha lasciato il potere nella mani dei militari, in una situazione ancora molto confusa. Che cosa puo' significare questo per la Casa Bianca?

Direi che dobbiamo partire dalle dichiarazione che ha fatto il segretario della Difesa Robert Gates qualche giorno fa, quando ha apertamente lodato il comportamento dell'esercito egiziano nei confronti dei manifestanti. Quella che va chiarita e' la dimensione strategica dei rapporti . Ovviamente ci sono buone relazioni accademiche e pratiche tra le due istituzioni, I rapporti tra gli alti vertici delle due istituzioni sono stretti e di fiducia.
Negli Stati Uniti, pero', l'esercito non ha nessun ruolo domestico, e' considerato uno strumento al servizio dello stato. In Egitto invece l'esercito ha una ramificazione profonda di relazioni con il potere economico e con la popolazione in senso lato. In un certo senso in Egitto l'esercito e' il protettore dello stato. E proprio per queste ragioni alla fine i militari egiziani agiranno sempre come pensano che sia necessario per il bene del paese, secondo come lo vedono.

Adesso la transizione e' ufficialmente iniziata. Il pubblico americano e internazionale pero' si chiede se Obama avrebbe potuto fare meglio o di piu' per assicurare una transizione pacifica e democratica?

Nei giorni scorsi Obama e' stato molto criticato negli editoriali, si e' detto che aveva bruciato le possibilita' dell'America di dialogare con il nuovo Egitto, che aveva contribuito a creare un vuoto di potere. Io credo invece che soprattutto negli ultimi giorni abbia fatto un buon lavoro.
Io penso che l'amministrazione sia sostanzialmente corretta quando dice che la transizione deve essere graduale, anche se ci vorranno diversi mesi o forse di piu' .
La Casa Bianca ha anche avuto ragione nel ridurre le troppe dichiarazioni pubbliche, che avevano creato una certa confusione, e e' stato saggia nel non minacciare tagli agli aiuti.
Negli ultimi giorni l'amministrazione ha ovviamente avuto problemi, come tutti gli altri, per capire che cosa succedeva , ma quello che deve e puo' fare e' dare dei consigli in privato. In realta' il vero problema e' il limite dell'influenza che l'America puo' avere e il limite di quello che sappiamo veramente. Per un governo non c'e' scenario piu' difficile.

Quali sono adesso le armi in mano a Obama per influenzare gli avvenimenti?

Soprattutto la persuasione, limitata pero' dalla volonta' dell'altra parte di stare a sentire. L'importante e' di avere presto delle riforme che abbiano una credibilita' e che ci sia a tempi brevi qualcuno in abiti civili in posizione di autorita'. Insomma che ci siano degli esempi immediati di cambiamento che gli egiziani possano decidere di accettare. Ma la decisione di accettare o meno spetta a loro, noi possiamo solo dare qualche consiglio.

A chi dovra' rivolgersi il presidente americano?

Gli appelli al pubblico raramente funzionano. Non si sa mai quale puo' essere la reazione e Obama non potra' mai dire le cose giuste per accontentare tutti in una situazione con tante sfaccettature . La cosa migliore e' dire il meno possibile e soprattutto farlo in privato. I vantaggi non sono magari immediati ma col tempo trattare in privato con i governi o con chi e' in posizione di autorita' da' risultati molto migliori che non tentare di accontentare la piazza

Che speranze ci sono, per il presidente americano, di essere ascoltato?

Gli egiziani hanno tutte le chips sul tavolo, noi no. Per questo ci vedono, giustamente, come una parte che ha anche altri interessi, che magari loro giudicano sbagliati. Succedeva anche con Mubarak, ma questo non significa una crisi dei rapporti, e' solo ''real politics''.

Fonte: www.lettera22.it
12 Febbraio 2011

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento