Com’è cupa la capitale del Tibet. Lhasa, viaggio nella città proibita


Federico Rampini


La trasferta in un paese blindato, e nel luogo simbolo del buddismo. Finestre sbarrate, saracinesche chiuse e militari in assetto di guerra.


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Com'è cupa la capitale del Tibet. Lhasa, viaggio nella città proibita

LHASA – Com’è cupa Lhasa dopo tre mesi di isolamento forzato dal mondo. La penetro furtivamente; e per la prima volta dopo tanti viaggi in Tibet non incontro un solo occidentale. Pattuglie di soldati e polizia militare mi squadrano diffidenti a ogni angolo di strada. È una città triste, piena di ferite ancora aperte. Una traccia della sofferenza l’hanno voluta lasciare in bella vista le autorità, per esibirla come una prova della violenza criminale dei “ribelli”. È sulla via Barkhor, in pieno centro storico, nel quartiere che è rimasto più autenticamente tibetano. È un’antica casabottega ridotta a una carcassa annerita, una rovina che ancora puzza d’incendio, come se la furia dei manifestanti fosse passata da qui solo ieri. Sinistro memoriale, rievoca le immagini trasmesse centinaia di volte dalla tv di Stato: i corpi carbonizzati di cinque ragazze cinesi, cinque commesse bruciate vive nell’incendio del loro negozio il 15 marzo.

La via Barkhor è nel cuore di tutti i buddisti tibetani. La percorrono sempre in senso orario per fare il giro attorno al tempio Jokhang, e intanto muovono le file di ruote sacre della preghiera. Per anni l’ho vista sempre uguale: miriadi di pastori venuti dalle montagne, puzzolenti di burro rancido di yak, donne vestite di nero coi grembiuli lunghi a strisce color arcobaleno, mercatini e bancarelle all’aperto, e tanti turisti a mescolarsi nella folla locale, vivace e chiassosa, una gioia degli occhi. Oggi a ogni angolo incontro gruppi di uomini armati in tuta mimetica. I soldati in tenuta di guerra si alternano coi plotoni antisommossa della polizia militare, quelli con divisa blu e berretto a visiera, armati e con le radiotrasmittenti accese. “Ci sono anche tanti agenti in borghese – mi avverte la mia guida tibetana – ma li riconosciamo subito”.

Le altre ferite di Lhasa le scopro appena mi scosto dal giro abituale, entrando nei vicoli più appartati del vecchio quartiere. È uno spettacolo lugubre. Saracinesche abbassate, porte e finestre sprangate, una piccola città-fantasma. Sono le case dei desaparecidos, quelli che la polizia ha catturato a centinaia nelle sue retate. Quelli che i tribunali hanno condannato per direttissima, con pene fino all’ergastolo. Non hanno avuto neppure diritto a un simulacro di difesa. I pochi avvocati coraggiosi che si erano candidati ad assisterli sono stati radiati dall’albo professionale.

Sono il primo giornalista occidentale a penetrare qui da quando il Tibet è stato “blindato”, dopo la rivolta schiacciata da una repressione implacabile, da uno stato d’assedio che non è finito. Quella catena di eventi ha turbato il mondo, ha macchiato in modo indelebile l’anno delle Olimpiadi di Pechino. È il 14 e 15 marzo che la ribellione dei tibetani contro l’autorità centrale esplode in maniera selvaggia: assalti ai negozi degli han (i cinesi etnici), saccheggi e incendi, guerriglia urbana. Poi la brutale controffensiva dell’esercito e delle forze speciali antisommossa.

Il bilancio di quella tragedia resta controverso: 19 morti han secondo la polizia; centinaia di vittime tibetane secondo il governo del Dalai Lama in esilio. Il 26 marzo il regime tenta un’operazione di immagine per presentare un Tibet “pacificato”. Organizza un viaggio per un gruppo selezionato di giornalisti stranieri: è un fallimento, durante una visita in un monastero i religiosi urlano la loro protesta (“il Tibet non è libero!”). Da quel momento tutti gli osservatori vengono espulsi, la Repubblica Popolare chiude il Tibet, violando gli impegni sulla libertà di circolazione che aveva preso per le Olimpiadi. Mentre cala il silenzio impenetrabile della censura a Lhasa scattano gli arresti di massa, gli appelli alla delazione, le deportazioni nei campi di lavoro.

In Occidente lo sdegno si manifesta contro la fiaccola cinese a Londra, Parigi, San Francisco. Solo dopo il passaggio della staffetta olimpica a Lhasa – un percorso abbreviato e circondato da eccezionali misure di sicurezza – il governo cinese annuncia la riapertura della regione al turismo internazionale: il 24 giugno. Lo prendo alla lettera. Per una settimana tempesto di richieste tutte le autorità competenti e sono respinto in quanto giornalista. Alla fine riesco a entrare come turista. Anche in questa veste sono una bestia rara, non c’è un solo straniero sul mio volo Pechino-Chongqing-Lhasa.

Quando decollo dalla capitale, a Pechino è appena finito un incontro inconcludente fra il governo e i rappresentanti del Dalai Lama. Dal regime cinese è partito un ennesimo aut aut: il leader in esilio “deve far cessare i complotti anti-cinesi, le attività violente e terroristiche del Congresso della Gioventù tibetana”.

L’atterraggio a Lhasa offre per un attimo le emozioni di una volta: l’ebbrezza dell’altitudine (3.700 metri), la corona maestosa delle montagne, l’aria pulita e frizzante così diversa dallo smog di Pechino, le belle nuvole bianche sulle cime dei monti, il fiume rigonfio delle prime piogge monsoniche.

Dall’aeroporto alla città basta un’ora grazie alla nuova autostrada, al tunnel che perfora una montagna sacra. Si avvista la sopraelevata del nuovo supertreno Pechino-Lhasa, la meraviglia della tecnologia cinese, la ferrovia più alta del mondo. Lungo il percorso incrocio numerose colonne militari. Ne conto una, ha più di venti autocarri carichi di soldati. Alla partenza sono stato avvisato: non posso scegliermi l’itinerario né l’accompagnatore. E’ il governo ad assegnarmi l’agenzia di viaggio e il programma. Ha fatto male i conti. Il mestiere di guida turistica – non fra i più redditizi – è stato lasciato da tempo in mano ai giovani tibetani.

Quello che mi accompagna conosce cento modi per eludere la sorveglianza dell’autista cinese. Usa l’inglese per parlare dei “problemi avvenuti a marzo”, e per farmi capire senza ombra di dubbio da che parte sta. “Mio figlio, 8 anni, l’ho chiamato con lo stesso nome del Dalai Lama, Tenzin, e l’ho portato a Dharmasala perché avesse la benedizione del nostro leader spirituale. Molti bambini qui si chiamano Tenzin, e molti sono stati a Dharmasala”. Davanti a ogni monumento trova un pretesto per evocare l’amore del suo popolo verso il Dalai Lama, un tema tabù, un personaggio che il regime cinese vieta perfino di esporre in fotografia.

“Non potrò farti visitare il monastero di Drepung” si scusa all’improvviso il mio giovane cicerone. Abbassa gli occhi a terra, ha un attimo di esitazione e poi aggiunge in fretta: “In quel monastero ora non si entra, è in corso un programma del governo”. Non c’è bisogno di aggiungere dettagli. Drepung, a cinque chilometri da Lhasa, è il luogo da cui è partito l’antefatto dell’ultima rivolta. E’ un monastero del 1416, custode della tradizione buddista Gelugpa. Nei cortili interni di quella lamasteria i religiosi si allenano quotidianamente a discutere sulle sutra, i loro testi sacri.

Nell’anniversario della fuga in esilio del Dalai Lama (1959), il 10 marzo di quest’anno trecento monaci sono usciti da Drepung e hanno sfilato pacificamente per chiedere la liberazione dei prigionieri politici. Un reparto paramilitare, della Polizia armata del Popolo, li ha bloccati prima che entrassero a Lhasa. Ne ha arrestati cinquanta. Ma un gruppo di quindici religiosi è riuscito a superare i cordoni di polizia, è arrivato nella via Barkhor e ha innalzato la bandiera nazionale tibetana (arrestati, sono in carcere in attesa di giudizio).

Da quel momento la protesta è andata crescendo, ha coinvolto la popolazione civile, ha infiammato la rabbia latente soprattutto fra i giovani. E’ divampata l’insofferenza repressa per la “colonizzazione han”, l’immigrazione cinese, l’emarginazione dei tibetani dalle posizioni di potere, le offese all’ambiente naturale. Ora Drepung è off-limits, il focolaio della rivolta è il laboratorio di quel “programma del governo” a cui accenna pudicamente il mio accompagnatore. Pechino la chiama “rieducazione patriottica”. Sono sedute di indottrinamento politico, un lavaggio del cervello, assortito di umiliazioni e abiure: i monaci devono rinnegare il Dalai Lama, denunciarne i crimini, additarlo come un nemico della pace. Chi non si piega rischia il carcere, la tortura.

La mia guida mi accompagna in un altro monastero, per sole monache, un’appendice del tempio Jokhang nel centro di Lhasa. Le monache mi salutano con larghi sorrisi, mi fanno sedere accanto a loro mentre ripetono le preghiere ad alta voce. E’ l’ultimo giorno del mese dedicato a Buddha nel calendario tibetano. Fuori dal tempio di preghiera mi fanno accomodare nella loro sala da tè, affollata di famiglie, vecchi, bambini. Mi offrono il tè col burro salato, croste di formaggio secco. L’atmosfera è intima, i sorrisi radiosi accolgono il volto di un occidentale, per definizione un “amico”. E’ tanto che non vedevano uno di noi, tre mesi di solitudine sono un’eternità.

Appena fuori, sulla via Barkhor, mi ritrovo nello spettacolo desolante: meno pellegrini del solito (“sono diminuiti anche loro, dopo i problemi di marzo”), uomini in divisa ovunque. La gente di qui si gira al mio passaggio, sorride, saluta con degli “hello” affettuosi. Come se l’apparizione insperata dello straniero possa essere un buon augurio. Oltre agli arresti e alle condanne, anche i tre mesi di isolamento dal mondo sono un castigo pesante che il regime infligge al popolo che ha osato sfidarlo. Il turismo è una delle poche entrate dei tibetani, gli altri business dal commercio alle miniere sono in mano agli han.

Nel mio albergo di cento stanze solo due sono occupate – nell’altra c’è una cinese, arrivata sul mio stesso volo da Pechino. “I prezzi continuano a salire, ogni alimento costa carissimo”, spiega la mia guida. Il supertreno che arriva ogni giorno da Pechino doveva servire a ridurre i costi di trasporto, approvvigionare questa terra aspra e montagnosa dove l’agricoltura rende poco. Finora la nuova ferrovia non ha fatto calare i prezzi del riso e delle patate. Invece ha fatto arrivare più in fretta i rinforzi militari, per schiacciare i moti di marzo.

Prima del tramonto passeggiamo nel vasto piazzale sotto il Potala Palace, l’ex dimora del Dalai Lama, maestosamente adagiata su un monte. Lì in basso dove passano le automobili, come un dito puntato sul Potala c’è una grossa statua moderna, un pilastro di cemento armato drizzato verso il cielo. “E’ il monumento che fu costruito per celebrare il trentennale della Liberazione”, spiega la mia guida. Cioè il memoriale in onore dell’Esercito Popolare di liberazione che Mao Zedong mandò a invadere il Tibet nel 1949. Il ragazzo sorride: “Tutti i tibetani lo considerano una schifezza”.

È singolare questo mio ritorno a Lhasa, il più strano viaggio organizzato a cui abbia mai partecipato. Hanno tentato in ogni modo di non farmi venire qui, come stanno facendo con tanti altri stranieri. Una volta a Lhasa volevano che vedessi un paesaggio di cartolina illustrata, asettico e pacificato. Eppure il governo di Pechino continua a mancare un obiettivo: piegare i cuori e le menti dei tibetani. L’ordine regna, l’ho visto coi miei occhi. Ma il paesaggio di Lhasa, tre mesi dopo la rivolta più violenta della sua storia recente, è soltanto quello di una città occupata.

di Federico Rampini, inviato in Tibet

Fonte: Repubblica.it 

4 luglio 2008

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