Cina e Birmania. Due tragedie. Due prove per l’informazione


Oliviero Bergamini


Sul piano dell’informazione un fatto nuovo e positivo è accaduto. Le televisioni e i giornali cinesi hanno parlato della catastrofe in un modo che non si era mai visto prima. Diverso il caso della Birmania: su questo dramma il pugno di ferro della censura del regime.


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Cina e Birmania. Due tragedie. Due prove per l’informazione

Cina e Birmania. Due tragedie terribili. Due diverse prove per l’informazione. Il terremoto nella provincia dello Sichuan ha raso al suolo migliaia di case e scuole. Oltre 30.000 le vittime accertate, ma quasi certamente sono molte di più; milioni gli sfollati.
La tragedia ha svelato di colpo i lati più fragili dello sviluppo cinese. Sono crollate, seppellendo migliaia di ragazzi, scuole costruite da speculatori senza scrupoli utilizzando materiali scadenti. L’esercito è arrivato sui luoghi del disastro, ma privo di attrezzature adeguate; i soldati hanno spesso dovuto scavare praticamente a mani nude, fino a che, dopo diversi giorni, Pechino ha finalmente accettato l’invio di squadre di soccorso straniere, equipaggiate con strumenti moderni per trovare i superstiti e rimuovere le macerie. Nessuno saprà mai quante vite è costato questo ritardo.
Ma sul piano dell’informazione un fatto nuovo e positivo è accaduto. Le televisioni e i giornali cinesi hanno parlato della catastrofe in un modo che non si era mai visto prima. Non l’hanno occultata dietro i brevi ed evasivi comunicati ufficiali usati in passato, ma l’hanno documentata con ampi servizi e abbondanza di giornalisti e telecamere inviati sul posto. Molti osservatori hanno parlato di una vera svolta, uno di quegli eventi che segnano tappe importanti nello sviluppo della storia dell’informazione di un paese. Naturalmente la stampa in Cina resta lontanissima dall’essere libera; ma forse la forza combinata della tragedia e delle possibilità offerte dai nuovi media digital-globali ha aperto un varco nell’ortodossia informativa del regime, che potrà allargarsi in futuro.
Diverso il caso della Birmania, colpita da una catastrofe ancora più grave, che ha provoato oltre 130.000 morti e 2 milioni e mezzo di profughi, tra questi un milione di bambini, rimasti praticamente senza niente.
Su questo dramma il pugno di ferro della censura del regime si è stretto come non mai, o perlomeno ha cercato di stringersi. La televisione di stato ha mostrato solo in minima parte le distruzioni, e ha completamente nascosto il comportamento criminale delle autorità, che per settimane hanno ostacolato in vari modi l’arrivo degli aiuti internazionali pur di non far entrare nel paese personale straniero che avrebbe potuto violare la cortina di isolamento che nasconde al mondo le brutalità della dittatura.
Con cinismo i media ufficiali hanno utilizzato la tragedia a scopi propagandistici. Mostrando servizi in cui i generali offrivano personalmente pacchi di riso a profughi appositamente schierati davanti alle telecamere. Poi magnificando l’efficienza con cui era stato comunque portato a termine il referendum sulla nuova costituzione, e la vittoria schiacciante dei “sì”. Notoriamente, si è trattato di una truffa: una costituzione scritta dai militari in modo da conservare il proprio potere ed escludere con un cavillo da possibili future elezioni la leader e icona dell’opposizione democratica Aung San Suu Kyii; un voto voluto per dare una fasulla patina di consenso popolare al regime, una consultazione distorta in realtà da brogli, intimidazioni, irregolarità di ogni genere. Il regime non si è fermato davanti alla tragedia; al contrario, ha consapevolmente scelto di lasciar morire migliaia di cittadini pur di non compromettere lo svolgimento del referendum; non ha avvertito in anticipo la popolazione dell’arrivo del ciclone; e poi ha frenato gli aiuti nel timore che la propria operazione di maquillage politico potesse essere anche in minima misura compromessa.
Di questo però il mondo ha potuto vedere e capire ben poco. Solo pochi giornalisti coraggiosi sono riusciti a eludere i posti di blocco predisposti attorno a Yangon ed arrivare nelle zone più disastrate per documentare come esse siano tutt’oggi lasciate a sé stesse. Qualcosa, così, è filtrato; immagini di desolazione, fame, dolore; e di paura: paura che gli aiuti arrivino troppo tardi, e che alle vittime del ciclone se ne aggiungano molte altre, della fame e delle malattie.
In Cina il terremoto ha forse aperto una crepa benigna nel muro dell’informazione ufficiale. In Birmania il ciclone non è riuscito a scuotere il potere dei generali, che giustamente Gordon Brown ha accusato di comportamento disumano e Bernard Kouchner di “crimini contro l’umanità”.

Fonte: Articolo 21

18 maggio 2008

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