Centrafrica, il salto nel buio


Davide Maggiore - ilmondodiannibale.globalist.it


Il golpe di ‘Seleka’ non ferma i saccheggi a Bangui e c’è chi cerca di sfruttare anche le differenze religiose. Intanto Francia e Sudafrica stanno alla finestra.


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Dove va il nuovo Centrafrica? Dopo che la coalizione ribelle Seleka ha ripreso la sua offensiva costringendo alla fuga, il 23 marzo, il presidente François Bozizé – sostituito al vertice dello Stato proprio da uno dei capi dei ribelli, Michel Djotodia – la situazione a Bangui sembra più caotica che mai. Il bilancio delle vittime, prima di Pasqua, era di almeno 78 morti nella sola capitale dove – in seguito all’assalto di una base militare – armi da guerra sono finite anche in mano ai civili. Molti quartieri della città ancora sono senz’acqua e senza elettricità, tagliate dai ribelli durante l’assedio, con conseguenze drammatiche – tra gli altri – per i ricoverati negli ospedali. I ribelli hanno saccheggiato edifici pubblici, case private, sedi di organizzazioni internazionali e di società locali. Nel resto del Paese la situazione è simile.

Dopo la presa del potere, il nuovo ‘uomo forte’ Djotodia ha sospeso la costituzione e governa attraverso decreti. Con uno di questi l’autoproclamato presidente ha confermato al vertice del governo Nicolas Tiangaye, avversario di Bozizé, che non ha seguito l’ormai ex-capo dello Stato nella fuga e nella scelta di chiedere asilo politico in Benin. Formalmente, l’esecutivo Tiangaye continua ad essere ‘di unità nazionale’, ma tra i nomi dei ministri finora uno solo sembra essere vicino alla vecchia coalizione di Bozizé.

Le divisioni nel Paese rischiano di aggravarsi anche per la strumentalizzazione delle differenze religiose. Secondo le stime, professa l’islam circa il 15% della popolazione, soprattutto nelle regioni del Nord, dove la coalizione Seleka – comunque molto composita al suo interno – aveva le sue basi. Questo elemento è stato sfruttato da Bozizé, che ha più volte accusato i ribelli di “predicare il wahabismo”, dottrina radicale di origine saudita, o addirittura di essere “terroristi musulmani”. Sono islamici anche vari capi di Seleka, tra cui lo stesso Djotodia – che però ha dichiarato di essere il presidente “di tutti” – e sul territorio i miliziani ribelli, aizzati da alcuni elementi locali ‘interessati’, si sono resi protagonisti di furti ed estorsioni ai danni di comunità cristiane. La debolezza dello Stato centrafricano e i legami etnici tra le popolazioni di frontiera hanno reso inoltre fragili i confini nel corso degli anni: tra i ‘ribelli islamici’ è stata segnalata la presenza di combattenti provenienti dal Sudan e dal Ciad, Paesi in cui da anni sono attive fazioni armate di vari orientamenti.

Un appello alla pace religiosa – va ricordato – è arrivato in questi giorni anche dall’imam Oumar Kobline Layama, presidente delle comunità islamiche centrafricane che ha chiesto di “non distruggere la coabitazione che va avanti ormai da 50 anni”, ricordando anche che “l’Islam non incoraggia né divisioni, né furti, né saccheggi”. Un rischio di esplicita ‘islamizzazione’ dunque non sembra esserci, nonostante le innegabili preoccupazioni per la sicurezza.

Dall’Occidente, e in particolare da Parigi, filtra semmai un timore diverso: che la debolezza dello Stato centrafricano favorisca infiltrazioni di gruppi estremisti, provenienti dal Mali o dalla Nigeria. Un’ipotesi non facilissima, stando alla logistica, ma che potrebbe convincere la vecchia ‘madrepatria’ coloniale ad intervenire. Cosa che finora ha evitato di fare, a differenza di quanto avvenuto, ad esempio, in Mali. Truppe d’Oltralpe, in realtà, si sono schierate a Bangui, ma solo per difendere l’aeroporto e rendere possibile l’eventuale evacuazione di cittadini francesi. La fuga del vecchio alleato Bozizé, invece, è stata accolta, dal punto di vista politico, con indifferenza. Ad allontanare l’ex-presidente dalle simpatie del governo parigino potrebbe essere stata la decisine di ‘aprire’ a nuovi partner – tra cui la Cina – lo sfruttamento delle risorse naturali centrafricane (oro e diamanti, ma le potenzialità sembrano alte anche nel campo del petrolio e probabilmente dell’uranio); Djotodia, al contrario, con una delle sue prime dichiarazioni ha annunciato – oltre che di contare sull’aiuto di Usa e Francia per addestrare l’esercito – di voler rivedere i contratti minerari siglati dal suo predecessore.

Un’eventualità che preoccupa anche un altro dei Paesi emergenti, il Sudafrica. I soldati di Pretoria- già presenti sul territorio centrafricano – sono stati in effetti tra i pochi a difendere Bozizé quando era ormai assediato nel suo stesso palazzo: 13 di loro sono morti affrontando quelli che il governo del presidente Jacob Zuma ha definito “banditi”, tra i quali, secondo le testimonianze di alcuni militari, anche bambini-soldato. Zuma deve affrontare anche polemiche in patria. E c’è già chi parla di un possibile contrattacco sudafricano contro Seleka, colpita anche da sanzioni dell’Unione Africana. La crisi potrebbe quindi trasferirsi presto sul piano dei rapporti di forza internazionali, lasciando però irrisolti i molti problemi che in Centrafrica si trascinano da anni: prime tra tutte la centralizzazione del potere – con vaste regioni periferiche lasciate di conseguenza ai margini – e la fallita democratizzazione dopo la fine, nel 1979, delle manie “imperiali” di Jean-Bedel Bokassa. A pagare il prezzo di questa situazione, dovuta anche a ingerenze esterne, sono le popolazioni, che in molti casi mancano di tutto. In queste condizioni anche i tre anni al termine dei quali Djotodia ha – per ora – promesso che lascerà il potere, rischiano di risultare molto lunghi.

Fonte: http://ilmondodiannibale.globalist.it
2 aprile 2013

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