Ankara, si volta pagina


Orsola Casagrande


Il risultato delle urne può sancire il dominio degli islamisti moderati oggi al potere, cambiando definitivamente gli equilibri politici in un paese che si propone sempre più come una potenza regionale.


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Ankara, si volta pagina

Alla vigilia del referendum sugli emendamenti alla Costituzione redatta nel 1982 dai militari golpisti, alcuni quotidiani turchi (favorevoli alle modifiche del governo dell'islamico Akp, partito della giustizia e dello sviluppo) pubblicano un sondaggio del Pew research center sul rapporto tra cittadini e istituzioni. A partire da quella militare. Il sondaggio, condotto tra il 12 e il 30 aprile, rivela che la fiducia nelle istituzioni è diminuita parecchio negli ultimi anni. In particolare quella nei confronti dell'esercito, del primo ministro, del governo centrale e anche dei leader religiosi.
Secondo l'indagine l'esercito continua a essere un'istituzione amata in Turchia, con il 72% degli intervistati che ritiene che l'operato dei militari abbia una buona influenza sul paese. Tuttavia nel 2007 i sostenitori dell'esercito erano l'85%. Il sondaggio rivela anche che il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha perso consensi e stima in questi ultimi tre anni. Per il 52% degli intervistati il premier continua a avere un impatto positivo sulla vita del paese, ma per il 43% l'impatto del premier è negativo. Erdogan ha perso il 10% dei consensi.
«Questo referendum – dice Haluk Gerger, docente e scrittore turco – fa parte dello scontro di potere in atto. L'Akp e i liberisti vogliono conquistare magistratura, università e scuole. L'altra parte vuole mantenere lo status quo istituzionale. Siamo di fronte a una guerra di trincea. In questo momento Erdogan ha il coltello dalla parte del manico». La lotta di potere è quella che vede contrapposti da una parte i nazionalisti, posizionati attorno e sotto la leadership delle forze armate, dall'altra i liberali in tutte le loro varianti. Rappresentano una nuova sezione all'interno della grande borghesia chiamata «capitale verde» o «tigri anatoliche». Un gruppo che – attraverso il suo rappresentante politico, il governo dell'Akp – vorrebbe liberarsi dalla vecchia «ideologia ufficiale», che è quella kemalista (del padre della patria, Ataturk), elitaria, statalista. Questo nuovo settore pensa di poter imporre la sua «egemonia di valori» appoggiandosi all'islam, al «conservatorismo dell'Anatolia» e a una sorta di sintesi che Gerger definisce «turchismo-ottomanesimo».
Questo gruppo agguerrito ritiene di non aver bisogno di accettare la tutela, la protezione della burocrazia dello stato e dell'esercito. Gli schieramenti sono chiari, con il governo per il «sì» al referendum e l'opposizione del Chp che domani voterà «no». Come la destra ultranazionalista del Mhp (Partito del movimento nazionale). Sia Chp che Mhp hanno sofferto parecchie defezioni in queste ultime settimane. Dimissioni e mugugni legati a problemi interni di chi non vede di buon occhio un'alleanza Chp-Mhp.
Le modifiche alla Costituzione sono state etichettate come un mero «esercizio cosmetico» dal kurdo Bdp (Partito della pace e la democrazia), che guida il fronte schierato per il boicottaggio del referendum. Una posizione sostenuta tra gli altri, da molte delle vittime del golpe del 12 settembre 1980 (la Costituzione è stata scritta dai militari due anni dopo il colpo di stato), da socialisti, femministe, associazioni gay, lesbiche, transgender, intellettuali.
Nella lotta di potere descritta da Gerger è chiaro che fin qui il vincitore è il governo da una parte e la Corte Costituzionale dall'altra. La Corte infatti è stata molto criticata per la sua sentenza con cui ha modificato alcuni articoli cruciali che l'avrebbero nei fatti indebolita. Ma i giudici hanno abilmente dribblato l'articolo 148 della Costituzione che dà loro potere di verificare la forma ma non il contenuto degli emendamenti. Le modifiche chirurgiche agli articoli 16 e 22 salvano l'esistenza arrogante della Corte in un momento in cui il vecchio establishment è in difficoltà. Quanto all'esercito è chiaro che dopo la diatriba con il governo sulle nomine delle alte cariche, sta cercando di riguadagnare terreno e potere. E lo fa, ancora una volta, sulla pelle dei kurdi. Infatti appare chiaro che l'accordo Akp e esercito lo stiano trovando sulla guerra. I militari lasciano mano libera agli islamici dell'Akp sulla gestione dello stato e l'Akp non interviene sulle operazioni militari, che continuano nonostante il cessate il fuoco unilaterale del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) in vigore fino al 20 settembre.

Fonte: www.ilmanifesto.it
11 Settembre 2010

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