Anche a Baghdad, venti di rivolta e sogni di democrazia


La redazione della Marcia


Oday Hatem, Presidente della Society For Defending Press Freedom, Baghdad (Iraq), è uno dei giovani partecipanti al Percorso Mediterraneo del Forum 1000 Giovani per la Pace, invitato da CGIL e Un ponte per…


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Anche a Baghdad, venti di rivolta e sogni di democrazia

Essere un giornalista in Iraq oggi è difficile e pericoloso. Nel 2010 sono arrivato al un punto di progettare la fuga dal paese con la mia famiglia e chiedere asilo politico in Germania, ma quest anno qualcosa è cambiato. Le rivoluzioni arabe sono arrivate anche in Iraq, e dal 25 febbraio 2011 a Baghdad le persone sono scese in strada, hanno preso l'iniziativa per chiedere riforme e costruire un paese migliore, superando le barriere religiose tra loro. Da quel giorno ho recuperato la speranza e l'energia per lavorare con la società civile irachena alla promozione dei nostri diritti.
C'è chi dice che oggi l'Iraq è una democrazia ma non possiamo definire “rappresentativa” del popolo una democrazia basata solo sulle elezioni. Chi risulta vincitore può calpestare i valori della società e distruggere la coesione sociale. Ricordiamo che Socrate fu vittima della democrazia e Hitler raggiunse il potere tramite le elezioni: ci sono regimi che usano le elezioni come strumento di sostegno al loro potere ma sono dittature di fatto. Il pilastro di un regime democratico è la partecipazione e il monitoraggio delle istituzioni da parte dei cittadini, ad ogni livello e in ogni aspetto della vita pubblica. Per raggiungere questo obiettivo sono necessari tre strumenti: media liberi e indipendenti che diano informazione trasparente al pubblico, una società civile attiva e professionale, e libertà d'espressione per tutti i cittadini.

In Iraq il processo politico attuale può portare alla democrazia ma anche a una nuova dittatura, è in atto un conflitto tra poteri che le fazioni politiche combattono spesso con le armi e gli attentati, sulla pelle dei cittadini. Anche le elezioni si tengono sotto pressione della forze religiose, etniche e tribali. Per questo è possibile indovinare il risultato approssimativo delle elezioni prima che si tengano, in base alle appartenenze etniche dei votanti in ogni provincia. Non abbiamo quindi una democrazia partecipativa, non abbiamo leggi che proteggano i media indipendenti e tutelino la libertà d'espressione. Anche se la nostra costituzione garantisce le libertà civili, gli art. 38 e 46 condizionano il rispetto di questi diritti all'ordine vigente e all'etica generale, includendo tutte le leggi in vigore e le tradizioni esistenti, anche quelle religiose o tribali. E' evidente quindi che questi articoli lasciano al governo lo spazio per restringere le libertà, abusando di questi concetti. Molte leggi dell'ordinamento iracheno infatti, promulgate durante e dopo la dittatura di Saddam, sono state emanate per limitare le libertà e opprimere la popolazione. Alcune condannano i “crimini di pubblicazione” e rendono impossibile per i giornalisti la critica a politici e alti funzionari, limitando fortemente le pubblicazioni. Così due articoli della costituzione irachena che dovevano rappresentare tasselli importanti della nuova democrazia, sono diventati invece strumenti per legittimare la repressione dei cittadini da parte di una nuova dittatura, e vengono usati correntemente dal governo iracheno e da quello regionale kurdo. Persino i nuovi progetti di legge, che dovrebbero rafforzare il rispetto dei diritti costituzionali, aumentano gli spazi di discrezionalità del governo, come la nuova legge per la “protezione” dei giornalisti, quella per la “libertà d'espressione” e per le “proteste civili”.

Il sogno di libertà è stata una scintilla tra due periodi oscuri, dovuto solo al fatto che dopo la caduta di Saddam il nuovo regime non era ancora in grado di controllare ogni aspetto della vita civile. Oggi purtroppo l'attitudine del governo verso le proteste popolari e le libertà pubbliche chiarisce la dimensione del problema. Alla fine del 2008, quando il chaos in Iraq stava per placarsi e il conflitto interetnico si era attenuato, il governo iracheno ha posto tra le sue priorità quella di fermare le proteste e manifestazioni dei cittadini. La strategia si è compiuta con la repressione delle manifestazioni del 17 febbraio 2011 a Suleymanyia e del 25 febbraio a Baghdad, il giorno della rabbia. Quello che è successo ha riportato alla mente degli iracheni le immagini e le dure memorie della dittatura, e ha dato una chiara immagine di come intendeva agire il nuovo regime che sfortunatamente sta per consolidare il suo pieno controllo dell'Iraq. Decine di manifestanti sono stati uccisi, le forze militari hanno picchiato e terrorizzato i manifestanti, alcuni sono stati rapiti da forze di sicurezza, altri arrestati o monitorati costantemente dalla polizia. C'è chi infine è stato assassinato da anonimi, o minacciato con un messaggio chiaro contro la sua famiglia, come è successo ad un giornalista di Suleymanyia a cui è esplosa una bomba in casa. Le autorità usano e minacciano di usare anche contro i giornalisti la legge antiterrorismo, la cui condanna può arrivare alla pena di morte. Altri, solo per aver partecipato alle manifestazioni, vengono accusati di essere Baathisti e segnalati così come obiettivo per le milizie, con una sorta di luce verde delle istituzioni ai gruppi armati che volessero ucciderli.

E' una grande delusione vedere che la comunità internazionale, rappresentata dagli USA e dai governi occidentali, sceglie di essere partner e complice del governo iracheno nell'oppressione, attribuendogli il diritto a reprimere le proteste in nome della sicurezza. Le organizzazioni non governative internazionali e irachene hanno chiesto alla comunità internazionale di proteggere i manifestanti ma questi appelli sono stati ignorati. Nella storia delle Nazioni Unite in particolare rimarrà una grave macchia: nella fase peggiore della repressione, il capo della missione ONU di assistenza all'Iraq ha descritto il paese come una matura democrazia e ha ringraziato il governo in un'occasione pubblica per il suo profilo di rispetto dei diritti umani, definito come il migliore nella regione. Proprio in quel periodo esplodeva il fenomeno delle prigioni segrete in cui il governo chiude migliaia di detenuti senza dar loro accesso a un processo giusto, e televisioni come Al Sharqia TV o Al Baghdadia TV venivano messe sotto pressione per aver esercitato il diritto di cronaca su questa e altre violazioni. Gli iracheni da tutto questo desumono che la priorità della comunità internazionale è sostenere il regime politico iracheno, qualunque siano le sue mosse, pur di veder uscire il petrolio dal paese. Il petrolio iracheno è visto come una risorsa di garanzia per sostituire possibili interruzioni di forniture dai paesi arabi in cui sono scoppiate le rivolte popolari. Il vento di cambiamento può arrivare anche in Arabia Saudita, nessun paese è al riparo dalla trasformazione.

Abbiamo quindi bisogno di riformare la costituzione irachena dal punto di vista dei diritti umani secondo gli standard internazionali, abrogare le vecchie leggi usate contro le libertà civili, raggiungere un accordo generale tra iracheni per uno stato laico, e promuovere un sistema giudiziario indipendente, nel pensiero e nei fatti. I giudici devono abbandonare la vecchia mentalità secondo cui i giornalisti ad esempio devono rispettare il potere costituito. Il popolo iracheno deve essere libero di unirsi in associazioni e sindacati, manifestare, lottare con modalità nonviolente per un paese migliore. Nonostante tutti i rischi che gli attivisti affrontano, gli iracheni stanno muovendo i passi necessari per promuovere queste riforme e costruire uno stato nazionale che superi i limiti settari, non un'altra teocrazia ma uno stato laico è autenticamente democratico.

24 settembre 2011

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