Il Centrafrica al crocevia tra guerra, pace, aiuti e investimenti privati Ue


La redazione


Via libera del Parlamento Ue al Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile per favorire soprattutto gli investimenti privati negli “Stati fragili” dell’Africa. Tra questi, la Repubblica centrafricana batte tutti i record di povertà e instabilità.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
VI-IT-ART-42736-repubblica-centrafrica11

Dopo mesi di discussione, il Parlamento europeo ha approvato il 6 luglio a larga maggioranza il Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile, un pilastro chiave del Piano d’investimenti dell’UE per l’Africa e i paesi del Vicinato presentato nel settembre 2016 dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, e dal Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker.

Investire laddove non lo si fa

Il Piano, che nasce da una proposta del governo Renzi (il “migration compact”) nel maggio 2016, mira a mobilitare 44 miliardi di euro in investimenti privati verso Stati “fragili”, offrendo una combinazione di sovvenzioni, prestiti e garanzie finanziarie pubbliche del valore di 3,3 miliardi di euro, per incoraggiare lavoro, crescita e stabilità, affrontando così le cause profonde della migrazione. “La cooperazione da sola non ce la fa, ed è il solo modo per attrarre i privati laddove non andrebbero spontaneamente, e avere anche garanzie sulle eventuali perdite”, ha commentato il vice ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale, Mario Giro in un editoriale su Avvenire. Il nuovo Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile, che il Consiglio dovrà approvare in via definitiva, disporrà di una garanzia pari a 750 milioni di euro, di cui 350 milioni di euro prelevati dal bilancio UE e 400 milioni di euro dal Fondo europeo per lo sviluppo (FES).

Se c’è uno “Stato fragile” che ha bisogno come il pane di aiuti e investimenti privati, questo è la Repubblica Centrafricana. Parliamo di un paese noto per le sue ricchezze minerarie, ma tra i più poveri al mondo, il cui destino è stato segnato da conflitti sanguinosi provocati da predatori politici e signori della guerra. Insoma, un pezzo di terra africana in cui pochissimi investitori europei sarebbero disposti a investire soldi per lanciare attività imprenditoriali, creare posti di lavoro e contribuire allo sviluppo di una nazione dove si contano centinaia di migliaia tra rifugiati e sfollati interni.

I due miliardi di euro promessi dalla Comunità internazionale nel novembre 2016 per contribuire alla ricostruzione della RCA nei prossimi anni è stato un primo passo importante. Ora, ci vuole la pace, a cui aspira il popolo centrafricano. L’accordo firmato a fine giugno a Roma sotto il ‘patrocinio’ della Comunità di Sant’Egidio potrebbe segnare una svolta nel destino della RCA. Per Mario Giro, “è un’occasione che non va sprecata”. Di sicuro, la fortissima mobilitazione dell’Europa sul continente africano per lottare contro le cause profonde dei flussi migratori è – secondo Bruxelles – un’opportunità che molti paesi africani potrebbero sfruttare, special modo quelli più poveri e fragili come la RCA. Ma in attesa che le promesse diano i loro frutti, bisogna fare i conti con la realtà.

Oggi, in mezzo al caos centrafricano, c’è Jean-Alain Zembi. E’ un prete di frontiera, come ce ne sono tanti in Africa. Con la differenza che Zembi sta sul fronte di una terra tra le più sconnesse al mondo. Questa terra è, manco a dirlo, la RCA, teatro di una guerra civile che dura da più di un decennio, un paese che infila con regolarità disarmante i record negativi nelle classifiche dello sviluppo umano mondiale. Sanità, educazione, infrastrutture sociali, trasporti non fa differenza.

Ma al di là dei numeri, che dicono sempre troppo poco rispetto a quello che accade nella vita delle persone, l’abate Zembi ha il merito di raccontare l’inferno centrafricano curando la più improbabile delle pagine Facebook, costruita e mantenuta sul filo di pochi megabytes dalla città di Zemio, circa mille chilometri a est della capitale, Bangui. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna partire da Google Maps, che ha il il vizio di calcolare il tempo di percorso tra i due centri urbani come se le strade che le collegano fossero state asfaltate ieri. Ma l’asfalto, in Repubblica centrafricana non esiste. E così, conviene molteplicare per almeno tre, se non quattro le dodici ore indicate da Google.

Il secondo punto è che Zemio, al pari di altre città di provincia della RCA come Bria, è negli ultimi giorni in preda ad atti di estrema violenza da parte di milizie armate in lotta fra loro e con il governo centrale per il controllo del territorio centrafricano. Questo inferno, ultimamente Jean-Alain Zembi lo racconta ogni giorno. Il suo post datato 30 giugno dice molto di una guerra in apparenza “dimenticata”, di sicuro non ha l’attenzione della Siria, ma che in realtà è seguita da vicino da una parte della Comunità internazionale, con in testa l’Unione Europea, l’Italia, la Francia e la comunità di Sant’Egidio.

Dopo mesi di discussione, il Parlamento europeo ha approvato il 6 luglio a larga maggioranza il Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile, un pilastro chiave del Piano d’investimenti dell’UE per l’Africa e i paesi del Vicinato presentato nel settembre 2016 dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, e dal Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker.

Investire laddove non lo si fa

Il Piano, che nasce da una proposta del governo Renzi (il “migration compact”) nel maggio 2016, mira a mobilitare 44 miliardi di euro in investimenti privati verso Stati “fragili”, offrendo una combinazione di sovvenzioni, prestiti e garanzie finanziarie pubbliche del valore di 3,3 miliardi di euro, per incoraggiare lavoro, crescita e stabilità, affrontando così le cause profonde della migrazione. “La cooperazione da sola non ce la fa, ed è il solo modo per attrarre i privati laddove non andrebbero spontaneamente, e avere anche garanzie sulle eventuali perdite”, ha commentato il vice ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale, Mario Giro in un editoriale su Avvenire. Il nuovo Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile, che il Consiglio dovrà approvare in via definitiva, disporrà di una garanzia pari a 750 milioni di euro, di cui 350 milioni di euro prelevati dal bilancio UE e 400 milioni di euro dal Fondo europeo per lo sviluppo (FES).

Se c’è uno “Stato fragile” che ha bisogno come il pane di aiuti e investimenti privati, questo è la Repubblica Centrafricana. Parliamo di un paese noto per le sue ricchezze minerarie, ma tra i più poveri al mondo, il cui destino è stato segnato da conflitti sanguinosi provocati da predatori politici e signori della guerra. Insoma, un pezzo di terra africana in cui pochissimi investitori europei sarebbero disposti a investire soldi per lanciare attività imprenditoriali, creare posti di lavoro e contribuire allo sviluppo di una nazione dove si contano centinaia di migliaia tra rifugiati e sfollati interni.

I due miliardi di euro promessi dalla Comunità internazionale nel novembre 2016 per contribuire alla ricostruzione della RCA nei prossimi anni è stato un primo passo importante. Ora, ci vuole la pace, a cui aspira il popolo centrafricano. L’accordo firmato a fine giugno a Roma sotto il ‘patrocinio’ della Comunità di Sant’Egidio potrebbe segnare una svolta nel destino della RCA. Per Mario Giro, “è un’occasione che non va sprecata”. Di sicuro, la fortissima mobilitazione dell’Europa sul continente africano per lottare contro le cause profonde dei flussi migratori è – secondo Bruxelles – un’opportunità che molti paesi africani potrebbero sfruttare, special modo quelli più poveri e fragili come la RCA. Ma in attesa che le promesse diano i loro frutti, bisogna fare i conti con la realtà.

Google Maps va fuori strada

Oggi, in mezzo al caos centrafricano, c’è Jean-Alain Zembi. E’ un prete di frontiera, come ce ne sono tanti in Africa. Con la differenza che Zembi sta sul fronte di una terra tra le più sconnesse al mondo. Questa terra è, manco a dirlo, la RCA, teatro di una guerra civile che dura da più di un decennio, un paese che infila con regolarità disarmante i record negativi nelle classifiche dello sviluppo umano mondiale. Sanità, educazione, infrastrutture sociali, trasporti non fa differenza.

Ma al di là dei numeri, che dicono sempre troppo poco rispetto a quello che accade nella vita delle persone, l’abate Zembi ha il merito di raccontare l’inferno centrafricano curando la più improbabile delle pagine Facebook, costruita e mantenuta sul filo di pochi megabytes dalla città di Zemio, circa mille chilometri a est della capitale, Bangui. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna partire da Google Maps, che ha il il vizio di calcolare il tempo di percorso tra i due centri urbani come se le strade che le collegano fossero state asfaltate ieri. Ma l’asfalto, in Repubblica centrafricana non esiste. E così, conviene molteplicare per almeno tre, se non quattro le dodici ore indicate da Google.

L’appello su Facebook di padre Zembi dall’inferno di Zemio

Il secondo punto è che Zemio, al pari di altre città di provincia della RCA come Bria, è negli ultimi giorni in preda ad atti di estrema violenza da parte di milizie armate in lotta fra loro e con il governo centrale per il controllo del territorio centrafricano. Questo inferno, ultimamente Jean-Alain Zembi lo racconta ogni giorno. Il suo post datato 30 giugno dice molto di una guerra in apparenza “dimenticata”, di sicuro non ha l’attenzione della Siria, ma che in realtà è seguita da vicino da una parte della Comunità internazionale, con in testa l’Unione Europea, l’Italia, la Francia e la comunità di Sant’Egidio.

“Zemio è messa a ferro e a fuoco da mercoledì 28 giugno 2017”, scrive il prete. “Più di 1.500 sfollati nella chiesa cattolica e 5.000 nell’ospedale. Aiutateci. Siamo nell’insicurezza la più totale. E’ da quattro giorni che i corpi sono rimasti fuori, nei quartieri… in stato di putrefazione. La gente non mangia, non beve acqua potabile, e non ci sono mezzi a sufficienza per curarsi. Delle case sono state incendiate. Quasi tutte le famiglie sfollate sono senza tetto. Come faranno dopo la crisi? Semmai questa crisi finirà. Vogliamo la pace, ma sembra molto lontana da noi. Aiutateci a riportarla deponendo le vostre armi, abbiamo sofferto abbastanza. Non ne possiamo più”.

Guerra e pace

In Centrafrica, la pace si è volatilazzata una prima volta nel 2003, quando l’allora presidente Ange-Felix Patassé, giunto al potere dieci anni prima con le prime elezioni nella storia del paese, viene rovesciato dal suo ex capo di Stato maggiore, François Bozizé, con il sostegno del Ciad. A sua volta, Bozize è cacciato nel marzo 2013 da una coalizione di forze ribelle del nordest a maggioranza musulmana (Seleka) – la RCA è all’80% di fede cristiana –, appoggiati da mercenari sudanesi e ciadiani che portano al potere Michel Djotodia. Segue un’ondata di repressione delle Seleka contro i fedeli di Bozizé che sfocia sulla creazione di milizie cristiane e animiste, meglio note come forze “anti-Balaka” (che significa “anti-pallottola”, o “anti-pallottola AKA, in riferimento alle kalashnikov), accusate di azioni altrettanto violente contro civili musulmani, associati alle Seleka.

Le violenze hanno raggiunto un tale livello che alla fine del 2014 si contavano 850mila sfollati interni e rifugiati (circa il 20% della popolazione), in maggioranza musulmani. Il resto è una sequenza di scontri armati di bassa intensità, alleanze che nascono e si disfano in un gioco di equilibri politici kafkiani, accordi di pace siglati ma puntualmente violati, risorse minerarie che fanno gola a tutti, una povertà estrema, la Comunità internazionale che prova a calmare acque più che agitate attraverso una missione di pace (Minusca) composta da 12.790 caschi blu e criticata (in modo a volte eccessivo) per la sua scarsa operatività e gli scandali denunciati sui media. Ma nel deserto spunta sempre un’oasi, che appare nel 2016 con la vittoria di Faustin-Archange Touadera alle elezioni presidenziali.

Tutto a posto? Purtroppo no. Oggi “12 province su 14 sono controllate dai gruppi ribelli”, sostiene il portavoce del governo, Thédore Jousso; su 4,6 milioni di abitanti, 2,2 necessitano di assistenza umanitaria, tra cui la comunità pastorale dell’abate Zembi; circa 500mila sono ancora sfollati, altri 480mila si sono persi in Camerun, Repubblica democratica del Congo, Repubblica del Congo e Ciad. Infine il colmo, con i 1.600 profughi sud-sudanesi giunti in territorio centrafricano da uno Stato – il Sud Sudan – ancora più fragile del Centrafrica. Nonostante le richieste di aiuto alla Comunità internazionale, soltanto il 30% delle spese umanitarie richieste per il 2017 sono state finora coperte.

La Comunità di Sant’Egidio in prima linea

Ma qualcuno ci spera ancora. E così, la Comunità di Sant’Egidio riesce nell’impresa di riunire a Roma a fine giugno il governo e 13 gruppi armati sui 14 recensiti in RCA per la firma di un accordo di pace che prevede: un cessate il fuoco; la progressiva reintegrazione delle forze ribelle nell’arena politica; il riconoscimento del lavoro della Corte penale speciale e della Corte penale internazionale; l’istituzione di una Commissione verità e riconciliazione.

Gli equlibri rimangono fragili. Tanto fragili che subito dopo l’accordo un centinaio di persone vengono uccise nella località di Bria, 190 km a nord di Bangui, in seguito a scontri violentissimi che hanno opposto gli anti-balaka e uno dei numerosi gruppi politici che compongono la costellazione frantumata degli ex-Seleka. C’è chi naturalmente prova ad affossare l’accordo di pace tessuto da Sant’Egidio per difendere i propri interessi oppure scongiurare il rischio di essere processato. Come lo ha ricordato il vice ministro degli Esteri e della cooperazione internazionale, Mario Giro, sulle colonne del quotidiano centrafricano Le Confident, “vista la situazione confusa che continua a regnare nel pase, i rischi di sbandamento non vanno esclusi”.
I signori della guerra e l’arena politica centrafricana

Ma come convincere i responsabili dei gruppi armati a deporre le armi e trasformare i loro movimenti in partiti se sulle loro teste pende il rischio di finire in carcere per crimini di guerra o crimini contro l’umanità? “Non c’è alternativa alle negoziazioni per tracciare un percorso verso la riconciliazione tra i centrafricani. E anche se la Storia prima o poi finisce per acciuffarti, è un rischio che va preso. Ne va del futuro del paese. La gente è stanca”. Così come sono stanchi i donatori internazionali di una guerra che non sembra avere fine.

Entrando nel merito del problema, c’è da chiedersi che fine farà, ad esempio, Abdoulaye Hissène, presidente del Consiglio nazionale di difesa e di sicurezza del Fronte popolare per la rinasciata del Centrafrica (FRPC), il proncipale partito dell’ex Seleka? A maggio il suo nome è stato inserito nella lista delle Nazioni Unite che racchiude le personalità centrafricane da sanzionare. Ma da Bria, il reporter di Le Monde scrive che Hissène non sembra molto preoccupato. Eppure, secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch pubblicato questa settimana, il suo movimento non è estraneo ai massacri che si sono verificati in due province centrafricane. “Almeno 224 persone sono state uccise e 1.134 case incendiate tra dicembre 2014 e ottobre 2016, dai combattenti del FRPC della Seleka e del MPC nei dintorni di Batanfago, in provincia di Ouham, e a Kaga-Bangoro, la capitale della provincia di Nana Grebizi”.

Nell’inchiesta condotta da Human Rights Watch in tre province durante questo periodo, le violenze dei gruppi armati hanno fatto almeno 500 vittime e distutto più 4.200 dimore. “I crimini rientrano nelle competenze della Corte penale internazionale (Cpi) e della Corte penale speciale (Cps), un nuovo organo giudiziario incaricato di indagare e processare sulle gravi violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra compiuti nel paese dal 2003”.

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento