Africa: 50 anni d’indipendenza?


Roberto Moranduzzo


A che punto è l’Africa, 50 anni dopo il processo formale di indipendenza che coinvolse ben 17 Stati, in gran parte ex colonie francesi?


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Africa: 50 anni d’indipendenza?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A che punto è l’Africa, 50 anni dopo il processo formale di indipendenza che coinvolse ben 17 Stati, in gran parte ex colonie francesi? Qual è stato il significato e l’esito di quell’evento che pur aveva suscitato grandi speranze nel continente nero? Tentare di rispondere a questi interrogativi aiuta di certo a capire l’Africa di oggi. Il 1960 segna l’inizio dell’indipendenza dal colonialismo, una ventata di ottimismo si diffondeva nella consapevolezza che era forse la prima volta che gli africani avevano la possibilità finalmente di avere in mano il loro destino.
Oggi molti esempi ammirevoli di autosviluppo di piccole comunità e qualche tentativo statale di riscatto nazionale cercano – nel contesto di un’Africa che non riesce a trovare coordinate di unione d’intenti – di contrastare una deriva economica e sociale che fa strame dei più elementari diritti ad una vita minimamente dignitosa per sterminate masse umane.
Il 1960 segna l’inizio dell’indipendenza dal colonialismo, una ventata di ottimismo si diffondeva nella consapevolezza che era forse la prima volta che gli africani avevano la possibilità finalmente di avere in mano il loro destino. I leader dei movimenti di decolonizzazione, che avevano favorito quel momento storico, erano delle figure di grande levatura intellettuale e morale, che avevano sacrificato spesso il loro tornaconto personale a favore del bene comune, persone che avevano ben preciso in mente quale poteva e doveva essere poi il cammino per avviare i loro Paesi ad una vera, sostanziale, liberazione dal giogo delle potenze europee.
Patrice Lumumba, primo premier della Repubblica democratica del Congo; Thomas Sankara, militare democratico del Burkina Faso; Leopold Senghor, figura di spicco della prima esperienza di democrazia, in Senegal. E ancora Jomo Kenyatta, capace di dare al Kenya l’istruzione gratuita e di massa; Kwame Nkrumah in Ghana; Houphouet-Boigny che in Costa d’Avorio si era battuto contro il lavoro forzato di schiavitù e per i diritti dei contadini immiseriti.
Personaggi che avevano dedicato forze fisiche ed energie intellettive per i loro popoli, statisti nel senso più pregno e autentico. Che davvero pensavano che oltre all’indipendenza formale era necessario costruire una solida, concreta, incisiva liberazione dai bisogni e dalle necessità più stringenti per dare dignità e coscienza alla loro gente. Alcuni di loro furono assassinati quasi subito (Lumumba), altri qualche anno dopo (Sankara).
Quasi tutti avevano studiano nelle missioni europee e nei college delle potenze coloniali di riferimento. Pensavano giustamente che non era sufficiente essersi riappropriati delle istituzioni per cambiare veramente lo status quo ante e il lascito coloniale.
L’economia doveva assumere una svolta radicale a favore degli impoveriti; la cultura essere il grimaldello per un’autentica emancipazione delle masse nere; la rivisitazione delle radici ancestrali la condizione per riscoprire una storia, le tradizioni, la sapienza atavica che il colonialismo aveva alterato, misconosciuto se non addirittura tentato di distruggere.
Quei generosi tentativi di dare contenuti “africani” all’ottenuta indipendenza furono quasi subito soffocati dalle stesse potenze europee per niente disposte a rinunciare ai loro corposi e consolidati interessi.
In pratica, l’Europa continuò ad agire per interposta persona: tramite le multinazionali, le lobbie economiche, il soffocamento sul nascere di qualsiasi tentativo di vera indipendenza (nell’assassinio di Lumumba fu subito acclarato il coinvolgimento dei servizi segreti belgi!).
Con il venire a mancare delle diverse carismatiche leadership indipendentiste si è afflosciato di conseguenza anche il progetto di una fuoriuscita strutturale dal mondo occidentale (i modelli di riferimento, i condizionamenti culturali, sovente anche le religioni e le fedi imposte). Anzi, si è finito, per mutuare, sic et simpliciter, quanto il colonialismo aveva importato negli anni della dominazione.
I peggiori dittatori africani (i Bokassa, i Didi Amin che esportano i tesori nazionali nelle banche svizzere!) emergono ed hanno la possibilità di imporre manu militari le loro feroci satrapie proprio in assenza di ogni alternativa. Laddove invece l’indipendenza ha avuto l’avvento dopo una lunga lotta di liberazione (Mozambico, Angola, Guinea Bissau e – in altro contesto – Eritrea ed Etiopia), decennali guerre civili hanno continuato a dilaniare quelle martoriate popolazioni.
Le politiche di “aggiustamento strutturale” del Fmi e della Banca Mondiale hanno sortito il resto: l’impossibilità di avere una propria politica sociale (accesso universale alla sanità e alla scolarizzazione), la mancata redistribuzione del reddito, il conseguente impoverimento crescente.
Un fenomeno particolarmente preoccupante è quello in atto da qualche anno. Riguarda l’accaparramento delle terre agricole più fertili da parte di compagnie straniere (attivissimi i cinesi), fondi sovrani di Stati con ingenti liquidità, fondi di investimento e altri truffaldini strumenti finanziari. Continua così l’esodo devastante dalle campagne alle periferie urbane, rigonfie, prive di tutto, invivibili. Il quadro che ne esce non è confortante, le migrazioni epocali attestano il bisogno innato delle donne e degli uomini di cercare altrove una vita migliore.
Oggi molti esempi ammirevoli di autosviluppo di piccole comunità e qualche tentativo statale di riscatto nazionale cercano – nel contesto di un’Africa che non riesce a trovare coordinate di unione d’intenti – di contrastare una deriva economica e sociale che fa strame dei più elementari diritti ad una vita minimamente dignitosa per sterminate masse umane.

Fonte: Vita Trentina

30 settembre 2010

 

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