Afghanistan, exit strategy. Ma per le ong


AGI Mondo ONG


Le organizzazioni non governative italiane sono state invitate a lasciare il Paese. Rispondono di “no” e rilanciano chiedendo a governo e Stato Maggiore Difesa un chiarimento definitivo su azione militare e intervento umanitario.


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Afghanistan, exit strategy. Ma per le ong

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La recrudescenza dell’attività terroristica dei talebani ha indotto l’ambasciata d’Italia a Kabul a consigliare alle organizzazioni non governative italiane di riconsiderare rischi e problemi di sicurezza legati alla loro permanenza in Afghanistan. Di là dalle perplessità espresse nel merito dalle ong -che certo non rinunciano alla loro vocazione di soccorso alle popolazioni, a maggior ragione quando sono afflitte dalla guerra- la segnalazione dell’ambasciata riporta l’attenzione al nodo centrale delle missioni italiane sui diversi fronti caldi: l’esigenza di una netta distinzione, nel mandato conferito dal Parlamento, tra l’intervento militare e quello civile. Si tratta di uscire dalla confusione di ruoli, per salvaguardare lo spirito di neutralità e di indipendenza degli operatori umanitari, internazionali e locali, e quindi la loro incolumità.
 
Il dibattito in Parlamento
La partita, dal punto di vista giuridico, si sta giocando al Senato con il voto sul decreto per il rifinanziamento (che da quest’anno è tornato semestrale) delle missioni all'estero. La Camera, con il parere favorevole del governo, ha ripristinato il finanziamento specifico per le attività di cooperazione civile, che era stato cancellato nel documento licenziato a dicembre. Un passo importante che premia l’impegno del direttore generale della Cooperazione allo sviluppo, Elisabetta Belloni, e la mobilitazione delle ong. Nella prima versione del decreto l’espressione “attività di cooperazione civile-militare” fondeva due mondi che, invece, devono rimanere distinti. I pericoli che essa generava hanno persuaso il legislatore a introdurre nella nuova versione del documento un articolo sugli “interventi di cooperazione allo sviluppo”, separato da quello “a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione”. Quest’utlimo comprende sia “operazioni civili di mantenimento della pace e diplomazia preventiva” sia attività del personale militare. Il documento è stato il risultato di un confronto politico tra il ministro degli Esteri, Franco Frattini, e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa.
 
La società civile afgana e il processo di pace
L’azione umanitaria -insistono le ong- deve restare fedele ai principi di umanità, neutralità, indipendenza, imparzialità, non discriminazione e non strumentalizzazione dell’aiuto, definiti a livello internazionale e che impongono questa distinzione dei ruoli senza ambigue e strumentali invasioni di campo. E solo un’impostazione chiara può facilitare forme d’intesa e di cooperazione tra le componenti civile e militare. È stato così in Libano, dove di recente l'ambasciata d'Italia, la Cooperazione, le ong e i comandi dei contingenti militari italiani hanno firmato un’intesa per costituire un ‘Tavolo di confronto’ che definisca i meccanismi di coordinamento tra la cooperazione civile e quella militare nell'area a sud del fiume Litani, quella maggiormente colpita dalla guerra dei 34 giorni dell’estate 2006. Sempre l’esperienza in Libano ha rafforzato nelle ong la convinzione che per ampliare l'azione di cooperazione e ricostruzione civile siano indispensabili il confronto e l’interazione con la società civile locale. In Afghanistan il tessuto sociale, a differenza della situazione politica, si presenta unito e vitale. Per questa ragione le ong hanno chiesto al Senato di confermare, all’interno delle attività di cooperazione civile previste dal decreto, il progetto di una Conferenza di pace della società civile afgana e regionale, da tenersi in Italia in coordinamento con le ong e la rete ‘afgana.org’.

Fonte: OngAgiMondo

18 febbraio 2009

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