Afghanistan, il lungo cammino della società civile


Giuliano Battiston


Parte domani (e prosegue fino al 5 settembre) la missione di pace a Kabul. La Tavola della pace e l’associazione americana dei familiari delle vittime dell’11 settembre Peaceful Tomorrows hanno deciso di andare insieme in Afghanistan per dire basta alla violenza, alla guerra e al terrorismo.


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Afghanistan, il lungo cammino della società civile

Una lettura burocratica della società civile

Negli ultimi decenni si è assistito a un vero e proprio “revival globale” dei dibattiti accademici sulla società civile, oltre che al tentativo di circoscrivere teoricamente la ‘società civile globale’. Anche nell’ambito delle politiche legate allo sviluppo internazionale e al peacebuilding è stata accordata grande rilevanza alle iniziative volte a “costruire e rafforzare la società civile”. Nel caso dell’Afghanistan, tali politiche si sono però basate su “una concezione piuttosto ristretta della società civile”. I paesi donatori, infatti, hanno sostenuto soprattutto le organizzazioni formalmente istituite, le Ong in primo luogo, perché percepite come politicamente neutre prima ancora che indipendenti, strutturalmente flessibili, più efficaci nel raggiungere i beneficiari dei loro progetti. In altri termini, si è preferito dare supporto ad organizzazioni di recente o nuovo conio, composte da individui appartenenti soprattutto alla classe media e urbana, con un mandato fortemente definito, spesso con scarsa rappresentatività del corpo sociale e in alcuni casi legate all’establishment politico o ai leader locali.

“Il termine società civile – spiega Mirwais Wardak del CPAU di Kabul – è appropriato per descrivere le organizzazioni che operano in Afghanistan. L’errore sta piuttosto nel credere – come è stato fatto finora – che la società civile sia rappresentata solo dalle Ong, perché vorrebbe dire attribuirgli un ruolo eccessivo. Il fenomeno delle Ong è nato negli anni Ottanta e Novanta, e in quel periodo il loro compito era fornire servizi di base. Ancora oggi molte Ong continuano a limitarsi a questo, affidandosi a finanziamenti esterni, realizzando progetti decisi altrove e dimenticando l’aspetto dell’advocacy sui temi socialmente rilevanti. Oltre alle Ong esistono molti altri gruppi”. “Con tutti i milioni di dollari che arrivano in Afghanistan, con un governo debole, con un settore privato che non capisce davvero cosa significhi sviluppo e che lavora esclusivamente per sé – dice Seema Ghani del Khorasan orphanage di Kabul – le Ong sono state le uniche organizzazioni su cui la comunità internazionale ha potuto fare affidamento, soprattutto all’inizio. Il guaio è che questa attenzione le ha snaturate: stanno diventando sempre di più dei semplici project-implementors, lavorano come delle aziende, aspettando che i donor annuncino nuovi progetti. Per questo sono molto critica verso le Ong che si orientano in base alle richieste dei paesi donatori piuttosto che ai bisogni della gente. Le Ong sono legate alle strategie e alle politiche dei donor, che non necessariamente conoscono il paese o hanno compiuto le indagini necessarie. Le cose dovrebbero andare al contrario: bisognerebbe creare dei gruppi di pressione forti, consapevoli del proprio ruolo, capaci di compiere indagini empiriche, che poi vadano dai donor dicendo: ‘bene, voi avete i soldi, ma noi conosciamo i bisogni della gente’. Le Ong non fanno così, e non sono per niente attive. Tranne che nell’accaparrarsi i soldi”. Aggiunge Seema Samar dell' AIHRC: “In molti casi, il fatto che le organizzazioni della società civile siano dipendenti dai donor e dalle organizzazioni non governative internazionali implica che seguano le agende dei loro finanziatori. Ciò indebolisce lo status delle organizzazioni della società civile e fa perdere loro sovranità e indipendenza”. Il suo collega Nader Nadery spiega che: “Le organizzazioni di tipo formale, come quelle di aiuto umanitario con uno statuto definito, sono un fenomeno piuttosto recente, inaugurato negli anni Ottanta del secolo scorso, ed hanno avuto una forte espansione soprattutto a partire dal 2001-2. Si tratta di associazioni molto strutturate, che forniscono servizi di diversa natura, e tendenzialmente non sono gruppi di base, né sono molto attivi nella mobilitazione su questioni di rilevanza sociale. Per essere più precisi, potremmo dividere questa categoria in due sottogruppi: uno che si occupa, appunto, di fornire servizi, assecondando le indicazioni di budget definite dai paesi donatori, riempiendo quel vuoto nella fornitura di servizi che non è colmato né dal settore pubblico né da quello privato. In linea generale, in questi anni hanno assicurato servizi anche importanti, ma non hanno rafforzato la società civile in quanto tale. Esistono però anche altri gruppi, anch’essi strutturati, che lavorano su tematiche socialmente e politicamente rilevanti, per cambiare lo stato delle cose attraverso azioni collettive. Sono soprattutto piattaforme, network di gruppi, più che singole associazioni. Anche se realizzano i programmi dei paesi donatori, non dimenticano mai l’aspetto dell’advocacy generale. Un esempio particolarmente significativo sono le organizzazioni di donne, che si sono mobilitate contro l’approvazione della legge di famiglia sciita, contro le ambiguità del processo di riconciliazione e reclamando la salvaguardia dei diritti delle donne. Sono gruppi che possiedono il potenziale necessario per produrre cambiamenti significativi”

La preferenza accordata alle associazioni che sottoscrivono la strategia dei paesi donatori è il risultato di alcune caratteristiche generali. Quella che è stata definita “l’interpretazione burocratica” della società civile, infatti, non riguarda solo l’Afghanistan, ed è piuttosto un fenomeno caratteristico del connubio stabilito a partire dagli anni Novanta, nelle politiche allo sviluppo, tra l’agenda della good governance e la progressiva ri-affermazione del discorso sulla società civile: sulla spinta dell’ideologia neoliberista, si è cercato di liberare il ramo esecutivo dello Stato dalla sua responsabilità sociale e dalla sua responsività nei confronti dei cittadini, trasferendo funzioni e servizi dalla macchina burocratica statale, considerata inefficace ed elefantiaca, alle Ong, giudicate più “snelle” e capaci di attuare politiche di compensazione sociale senza sollevare obiezioni di carattere politico. Con la privatizzazione dei sistemi di welfare state e dei servizi delle infrastrutture, alle Ong sono stati dunque assegnati compiti operativi e di supplenza, soprattutto nei casi in cui la debolezza statale era particolarmente grave. E a partire dagli anni Novanta, con l’affermazione dell’interventismo umanitario, anche diverse funzioni di peacebuilding sono state trasferite al settore privato e alla società civile. Una tendenza che in Afghanistan viene considerata ormai inappropriata, perché “deve essere tenuto a mente che le organizzazioni della società civile non devono mai agire come un’alternativa allo Stato nell’implementare i servizi”.

La semplice equazione tra società civile e organizzazioni non governative è frutto dell’applicazione miope di una griglia analitica che identifica come società civile solo le forme associative familiari dal punto di vista occidentale, soprattutto le Ong di soccorso ed emergenza, e che marginalizza altre forme locali di associazionismo. Il fenomeno rientra però – come abbiamo visto – in una tendenza più generale, come dimostrano tutti i principali documenti di strategia allo sviluppo elaborati dal governo afgano in partnership con i paesi donatori. In questi documenti, è stato notato, allo Stato viene affidato il compito di creare le condizioni favorevoli alla libera circolazione delle merci, subappaltando il welfare sociale a una schiera di attori privati e alle Ong, e formalizzando le funzioni meramente manageriali dell’apparato statale. A ciò vanno aggiunti almeno altri tre fattori:
a) il fatto che “in un contesto caratterizzato da una forte frammentazione politica (al livello locale, nazionale e regionale), era difficile individuare quali attori potessero avere la necessaria autorità e legittimità per agire come interlocutori per stabilire gli accordi di aiuto allo sviluppo”, subito dopo l’intervento militare del 2001.
b) il fatto che nei casi di post-conflitto, o di conflitto a bassa intensità, gli imperativi urgenti della ricostruzione possono ridurre la possibilità di modellare i programmi di sviluppo sulle realtà locali, anteponendo la più facile trasferibilità di lezioni tecnocratiche e organizzative al complicato radicamento di strategie politico-culturali (strategie necessarie per garantire un buon funzionamento della società civile).
c) il modellamento derivato dalla prominenza dell’agenda della sicurezza su quello dello sviluppo e dell’assistenza umanitaria. Un aspetto che merita qualche dettaglio ulteriore.

Sicurezza e aiuti umanitari

In Afghanistan, la promiscuità tra aiuto allo sviluppo, sostegno alla società civile, operazioni militari e interessi di politica estera dei paesi donatori è particolarmente evidente. La novità non sta tanto nella politicizzazione degli aiuti, sia bilaterali sia multilaterali, che nel paese centroasiatico – come altrove – sono sempre stati legati a obiettivi di politica estera, ma nella tendenza dei donatori, subito dopo la caduta del regime talebano, a canalizzare gli aiuti allo sviluppo e umanitari attraverso le agenzie dell’Onu e le Ong, a causa dell’assenza di uno Stato funzionante, di una leadership politica riconoscibile e dell’iniziale riluttanza degli stessi donor a impegnarsi nello state-building. Una tendenza che ha contribuito a modellare la mappa associativa del paese, contestualmente alla duplice e contraddittoria strategia adottata dai governi occidentali per stabilizzarlo e indebolire il sostegno alle forze antigovernative: da un lato la componente militare, dall’altra gli aiuti allo sviluppo; da un lato gli obiettivi del contro-terrorismo, dall’altro quelli del peacebuilding e della sicurezza umana delle comunità locali. In questo modo, si è proceduto secondo un doppio e contraddittorio binario, dando luogo a uno degli aspetti più controversi del coinvolgimento della comunità internazionale in Afghanistan, ovvero l’incoerenza tra obiettivi della sicurezza, dello sviluppo, della liberalizzazione e della pace, in altri termini il “fare la guerra mentre si costruisce la pace”.

Lo dimostrano alcuni dati: l’Afghanistan ospita la più ampia e costosa forza di peacekeeping internazionale istituita dalle Nazioni Unite. Dei complessivi 286.4 miliardi di dollari investiti in Afghanistan dal 2002 al 2009, alle operazioni militari nel paese sono andati 242.9 miliardi di dollari, l’84.6% del totale. L’ammontare dei fondi relativi al settore della sicurezza e delle attività di contro-narcotici è estremamente difficile da tracciare, ma si stima che raggiungano almeno 16.1 miliardi di dollari (5.6%). Agli aiuti allo sviluppo è destinato il 9.4% (26.7 miliardi) della somma totale, al peacekeeping multilaterale (Unama ed Eupol) lo 0.3% (0,80 miliardi). Le spese registrate per le operazioni militari delle truppe staniere sono cresciute chiaramente dal 2003 e poi ancora dal 2006, raggiungendo un picco di 63.1 miliardi di dollari nel 2009, più di dieci volte il totale degli investimenti internazionali negli aiuti allo sviluppo in quello stesso anno. A dimostrare la crescente securitizzazione delle politiche di assistenza, anche i casi dei controversi PRT (Provincial Reconstruction Team), insieme ai dati della geografia della distribuzione degli aiuti, che riflettono gli obiettivi politici e militari dei donor: più di metà del bilancio agli aiuti stanziati dagli Stati Uniti, per esempio, è concentrato nelle quattro province meridionali più insicure del paese, che non sono necessariamente le più bisognose. Come spiega Aziz Rafiee (ACSF, Kabul): “L’agenda della comunità internazionale e dei paesi occidentali è dettata dalla sicurezza. Il guaio è che si tratta della loro sicurezza, non di quella degli afgani. A rimetterci è l’Afghanistan nel suo complesso, perché l’agenda della sicurezza ha finito per sostituire quella della ricostruzione e dello sviluppo del paese”. Aggiunge Ghulam Muhammad Masoomi, giornalista di Kandahar: “Le ragioni per unirsi ai movimenti antigovernativi non mancano: la gente non ha visto alcuna ricostruzione; i contadini sono accusati di sostenere i Talebani, e spesso arrestati, i loro campi distrutti dai bombardamenti, gli innocenti uccisi. La gente di qui non conosce le ragioni di tanta sofferenza: si vedono bombardare, senza capire quali colpe abbiano. Per loro gli stranieri non portano la pace, sono quelli che uccidono gli innocenti, che demoliscono le case. Altro che ricostruzione e aiuto alla società civile”. E, spiega Mohammed Anwar Imtiyaz (ADA, Kandahar): “Abbiamo spiegato molte volte ai rappresentanti del PRT che è sbagliato mischiare il lavoro umanitario con i militari. Negli ultimi tempi, pare che abbiano finalmente capito meglio che è controproducente sia per noi sia per loro”.

In Afghanistan il flusso di aiuti allo sviluppo ha storicamente generato uno Stato debole, rentier, sostanzialmente dipendente dalle risorse esterne, ulteriormente indebolito dalla tendenza a lavorare “intorno” allo Stato piuttosto che attraverso di esso. La securitizzazione degli aiuti, poi, non solo ha modellato in modo significativo obiettivi e pratiche delle politiche di emergenza e ricostruzione, ma a sua volta ha nutrito una società civile rentier, un assortimento di Ong finanziate dai paesi donatori, configurando un particolare modello di relazioni tra Stato e società civile che accorda priorità alle organizzazioni che forniscono servizi, piuttosto che a quelle che promuovono la discussione pubblica o la mobilitazione sociale, o che reclamano la responsività dello Stato. Non si tratta di criticare le attività di questo tipo di organizzazioni, ma di chiedere loro di dimostrare una consapevolezza politica dell’arena in cui operano, e di elaborare programmi che sostengano quanti cercano un’alternativa al conflitto, evitando di soddisfare soltanto gli obiettivi dei paesi donatori. “Sono molto diffidente verso le Ong che lavorano soltanto per realizzare progetti decisi altrove, e che al di là di questo non hanno alcuna visione della società e di come vorrebbero che diventasse. Sfortunatamente – dice Shinkai Kharokhail, parlamentare, già membro di AWEC – sono la maggioranza, anche se esistono persone con altri valori e obiettivi, che non pensano soltanto a ottenere soldi dai paesi donatori, e che lavorano a titolo anche volontario nei villaggi, nei distretti. Sarebbe sbagliato ignorarle”
Quest’orientamento tecnico-strumentale sostiene la società civile soltanto come subappaltatrice di servizi in linea con le priorità di sviluppo concordate da governo afgano e paesi donatori, come mero “canale per l’assistenza all’emergenza e allo sviluppo”. E insieme alla priorità accordata agli obiettivi militari rispetto a quelli dello sviluppo ha trasformato la “società civile in un progetto piuttosto che in un processo”, hanno lamentato molti degli intervistati nel corso della ricerca. Inoltre, l’ha depoliticizzata in almeno due sensi: in primo luogo, dimenticando che ha anche un ruolo politico, in quanto sfera per l’impegno personale diretto dei cittadini, per la deliberazione collettiva sugli affari pubblici; in secondo luogo nascondendo la natura già politicizzata del terreno su cui opera, un terreno in cui, per dirla con Gramsci, una molteplicità di attori, interni ed esterni, portatori di valori e ideologie diverse, si contendono l’egemonia. Spiega assai bene Abdul Rashid Reshad, di AWEC, Maimana: “Proprio perché anch’io ne faccio parte, so che tutte le Ong, che siano nazionali o internazionali, per poter lavorare non possono permettersi di criticare in modo esplicito governo e strutture statali, da cui dipendono, se non finanziariamente, sicuramente per la realizzazione dei progetti. Ma senza libertà di critica non c’è crescita della società civile. Da parte delle Ong internazionali non ho mai sentito pronunciare nessuna seria critica, da queste parti. Questo significa che manca una visione politica degna di questo nome”.

Le conseguenze della preferenza accordata alle Ong come fornitrici di servizi, a scapito del rafforzamento della società civile nel suo complesso sono diverse: si è tolto spazio e rilevanza a forme di associazionismo e luoghi di discussione pubblica, come i consigli di villaggio (jirga e shura) e i gruppi culturali, più rappresentativi ma meno riconoscibili secondo i parametri sanciti dal concetto normativo di società civile, perché informali o solo debolmente strutturati; la società civile nel suo complesso è stata sostanzialmente esclusa dalla formulazione delle politiche nazionali; è stata limitata la creazione di uno spazio comune, un’arena per la deliberazione pubblica, per l’esercizio della cittadinanza attiva: quella sfera pubblica dove raggiungere un consenso normativo (legittimo perché condiviso) a partire da una pluralità di interessi e posizioni spesse confliggenti.
Non è un caso dunque che in alcune delle interviste realizzate nel corso della ricerca, alla società civile sia stato attribuito come compito principale proprio quello di creare una spazio di discussione pubblica, che esiste al livello locale, ma fatica a imporsi a livello nazionale, quello spazio tra società e Stato che, sostiene Habermas, “garantisce la critica discussione pubblica di questioni di interesse generale”. Allo stesso tempo, è stata spesso sottolineata la distanza che corre tra le organizzazioni che si limitano a fornire servizi di diversa natura, e quelle che invece cercano di coagulare interessi e partecipazione per formare una “voce” che sia sufficientemente forte da essere udita nell’ambito pubblico, nazionale e internazionale.

Il rapporto con la comunità internazionale

Quanto ai principali attori internazionali, la maggior parte degli intervistati imputa loro di agire senza una strategia coordinata, con i singoli paesi coinvolti nell’aiuto allo sviluppo che perseguono agende legate ai propri interessi specifici, piuttosto che al benessere dell’Afghanistan; di avere la tendenza a imporre i propri orientamenti sulla controparte locale, percepita come mera esecutrice di progetti, anziché costruire percorsi condivisi.
La comunità internazionale dovrebbe invece considerare la società civile afgana nel suo complesso, trattarla come un interlocutore serio e affidabile; adottare equilibrate strategie di sostegno che siano fondate sulla reale conoscenza del paese e della sua composizione sociale, così da evitare il rischio di minare la legittimità delle associazioni locali; diversificare il sostegno alla società civile dalle politiche di aiuto umanitario, evitando di ridurla a semplice distributrice di servizi; prima ancora di equilibrate strategie di sostegno finanziario, dovrebbe esercitare pressioni sul governo afgano, affinché consolidi il quadro istituzionale all’interno del quale opera la società civile. Perché la possibilità di influenzare le politiche statali non dipende solo dalla forza della società civile e dall’accesso che ha presso gli organi statali, ma dalla stessa capacità statale di elaborare ed eseguire politiche innovative. E perché “dietro al peacebuilding c’è lo state-building, la costruzione di un’autorità politica legittima”. In questo senso, è stato giustamente suggerito che piuttosto che sulla sconfitta dei movimenti antigovernativi o sul negoziato politico tra due attori (governo afgano e movimenti ribelli) entrambi con scarso appoggio tra la popolazione, ci si dovrebbe concentrare sulla creazione di uno spazio politico attraverso il quale la società civile possa esprimersi e articolare un progetto di società alternativo. Uno spazio fatto di un sistema istituzionale funzionante, di un apparato giuridico regolato, di un adeguato ambiente politico, di media indipendenti. Dice Fawzia Farhat (CCA, Mazar-e-Sharif): “Sono poche le organizzazioni internazionali che hanno piani concreti, ben definiti, adatti alla situazione locale. In genere manca un approccio strategico generale. Inoltre, a volte ci chiedono soltanto di eseguire i loro piani. Vengono con delle proposte già pronte e ci dicono, ‘ecco, fate questo’. E’ un atteggiamento del tutto sbagliato, perché sono le associazioni locali quelle che sanno ciò di cui c’è più bisogno e conoscono i modi migliori per farlo. A volte c’è l’impressione che ci prendano per dei semplici fax, a cui spedire i progetti”. Ancora Nader Nadery: “Il rapporto con la comunità internazionale dipende molto dalla forza e dal coordinamento che riesce a darsi la società civile: nei casi in cui quest’ultima prende l’iniziativa, la comunità internazionale tende a sostenerla politicamente o finanziariamente, come è accaduto nel caso del dibattito sulla legge di famiglia sciita. Ma quando manca il coordinamento, o quando si affrontano questioni politicamente delicate come nel caso della legge sull’amnistia, la comunità internazionale tende a defilarsi, a rimanere in silenzio, evitando di appoggiare le battaglie della società civile”.

Alla comunità internazionale viene inoltre richiesto di rinunciare all’appoggio, diretto e indiretto, concesso a quegli attori politico-militari che fin qui hanno impedito il rafforzamento della società civile; gli si chiede di adottare un principio di coerenza tra dichiarazioni pubbliche e provvedimenti concreti; di applicare anche al proprio interno un serio monitoraggio sulla corretta distribuzione dei fondi destinati all’Afghanistan; di saper distinguere con maggiore attenzione le organizzazioni che si battono effettivamente per il miglioramento delle condizioni del paese da quelle che mirano alla soddisfazione di interessi egoistici e parziali; di sostituire i progetti di breve durata con programmi di lunga scadenza, attraverso i quali costruire percorsi esemplari, basati sulla collaborazione reciproca e sulla continuità, dove partecipazione non si riferisca soltanto alla condivisione di informazioni, alla consultazione, alla raccolta di dati, ma alla sovranità condivisa, alla trasparenza reciproca e alla possibilità che anche gli afgani possano orientare le agende politiche di rilevanza nazionale.
I rappresentanti della società civile incontrati chiedono ai paesi donatori di rinunciare progressivamente al ruolo protettivo nei loro confronti, e di poter decidere quali politiche siano più appropriate per il futuro dell’Afghanistan. Nel corso degli anni, è cresciuta infatti la richiesta di ottenere di nuovo la sovranità su tempi, modalità e strumenti per la propria affermazione. Le istituzioni realmente legittime – è stato notato – non possono che risultare da processi politici e sociali autoctoni, mentre la percezione che il potere sia eterodiretto disincentiva la partecipazione pubblica. In conclusione Mirwais Wardak: “Un consiglio che mi sentirei di dare alla comunità internazionale è di aumentare la percentuale di fondi la cui gestione passa per il governo afgano, e allo stesso tempo di usare criteri di trasparenza più rigidi, per verificare che i soldi vengano spesi effettivamente nel paese. Più in generale, suggerirei di cominciare a restituire sovranità al governo e alla società civile afgana”.
Il rapporto con il governo

Secondo quanto emerge da questa e altre ricerche, pur guardati con sospetto dal governo e percepiti come antagonisti, i rappresentanti della società civile sarebbero comunque disposti a lavorare al rafforzamento delle istituzioni statali e governative, nel rispetto delle reciproche sfere di competenza. In una situazione come quella dell’Afghanistan, è stato spesso ripetuto, la funzione della società civile non può limitarsi a essere “normativa per il potere”, tradursi soltanto nello scrutinio delle debolezze e opacità del governo, a cui chiedere trasparenza e correttezza procedurale; deve svolgere anche una funzione di supporto, di integrazione, di confronto aperto, di stimolo alla crescita.
Per molti infatti il compito della società civile, che comunque deve rimanere indipendente dal governo, “non è solo di criticare. La società civile ha una responsabilità più ampia. In alcuni casi il suo lavoro è lo stesso del governo…il governo e la società civile sono ugualmente importanti e non possono esistere l’uno senza l’altro…”.Secondo quanto sostenuto nell’ambito di una conferenza da Seema Samar, tra le fondatrici della Ong “Shuhada” e ora portavoce dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission, “la governance democratica richiede l’istituzione di legami stabili ed effettivi tra il governo e tutti i membri della società civile…la società civile offre una piattaforma sulla quale le istituzioni statali e i membri della società civile possono interagire e consultarsi l’un l’altro…La società civile agisce non solo per rilanciare il potere dello Stato, ma anche per aumentarne la credibilità legale. La società civile riconosce l’autorità statale e lo stato di diritto e sottolinea il bisogno di promuovere i principi istituzionalizzati per costruire una società prospera…la società civile dunque non è ostile al governo, ma gli mette pressione affinché diventi responsabile e attui riforme democratiche…rivelando casi di abuso del potere ufficiale e pratiche negative, aumenta le aspettative pubbliche verso lo Stato ed esercita su questo una pressione politica affinché crei meccanismi per migliorare le proprie performance…”. Le posizioni di Seema Samar, secondo la quale gli attori della società civile “devono studiare e valutare la vita, le credenze, le tradizioni, la cultura e gli orientamenti degli afgani e poi, sulla base dei risultati e dell’interpretazione, definire programmi di sviluppo”, da realizzare anche in collaborazione con il governo e le istituzioni statali, sono condivise da molti tra quelli che hanno partecipato alla ricerca. Al governo infatti viene chiesto di riconoscere nella società civile non un antagonista, ma un soggetto che, pur seguendo traiettorie e metodi diversi, punta a un obiettivo comune a quello del governo: garantire la stabilità dell’Afghanistan: “Noi diamo dei suggerimenti al governo, perché riteniamo che sia importante avere un governo che funzioni, un buon governo, e un governo può lavorare meglio in un contesto in cui anche i cittadini e la società civile facciano la loro parte”, dice Niamatullah ‘Hamdard’ del CSHRN di Jalalabad. Aggiunge Samira Hamidi (AWN, Kabul): “Il rapporto è difficile. Il governo ritiene che la società civile sia portata sempre a ragionare in termini negativi e a creare problemi, la società civile crede invece che il governo sia incapace, che non si sforzi abbastanza per lavorare insieme. E’ estremamente importante migliorare questo rapporto. Durante un mio recente viaggio in Pakistan, ho notato che alcune organizzazioni della società civile ricevono dei fondi governativi, mentre qui in Afghanistan a volte neanche parliamo con il governo. La situazione deve cambiare: il governo deve comprendere l’importanza del ruolo svolto dalla società civile, che a sua volta deve imparare a capire i problemi del governo, che di per sé non è molto stabile, perché sopravvive grazie all’assistenza e ai fondi della comunità internazionale. E’ il momento di cominciare a cambiare la cultura della critica reciproca, e di favorire la comprensione, il coordinamento e l’assistenza reciproca. Come Afghan Women Network abbiamo lavorato con il governo per la jirga di pace: è stato difficile, ma alla fine abbiamo trovato sostegno e siamo riusciti a coordinarci. Dovremmo continuare lungo questa strada”.

A dispetto di alcune iniziative sporadiche, finora l’apertura della società civile non sembra essere stato accolta dal governo, che continua ad attribuirle un ruolo accessorio, cerimoniale: ne tiene conto soltanto in occasioni pubbliche di particolare rilevanza, quando la presenza di rappresentanti delle associazioni locali serve a dimostrare alla comunità internazionale il rispetto degli impegni presi. Nelle altre occasioni, sostengono alcuni degli intervistati, il coinvolgimento avviene seguendo un criterio selettivo ambiguo, legato alle conoscenze personali piuttosto che a protocolli formali o istituzionalizzati. Un metodo che dimostra la riluttanza ad attribuire alla società civile una patente di legittimità come interlocutore, e la diffidenza verso la creazione di meccanismi di coinvolgimento certi e realmente praticabili. Il governo afgano è sembrato interessarsi soprattutto alle attività delle organizzazioni funzionali ai propri programmi di sviluppo, e ha eretto invece una barriera, più o meno permeabile a seconda dei casi, con il resto dei soggetti che compongono la società civile, lamenta la maggior parte degli intervistati. Molti di coloro che hanno partecipato alla ricerca sottolineano comunque come la situazione vari a seconda delle province, con alcuni rappresentanti governativi più permeabili alle istanze della società civile rispetto ad altri.

Il ruolo dei media

Il compito che molti degli intervistati attribuiscono alla società civile – un ponte tra la società e il governo – si riflette nell’importanza che viene accordata ai media. I media dovrebbero essere strumento di espressione dei cittadini, occasione di dialogo, meccanismo attraverso il quale far conoscere le realtà e i problemi dimenticati del paese alle istituzioni governative centrali e periferiche. Inoltre, in modo simile a quanto spetta alla società civile, non dovrebbero mai rinunciare a chiedere la trasparenza del governo nella gestione degli affari pubblici, dando conto di eventuali casi di malgoverno e sollecitando i rappresentanti istituzionali, mediante la pressione pubblica, a comportamenti corretti e responsabili. Le esigenze commerciali non dovrebbero condizionare eccessivamente la tutela e la promozione degli interessi collettivi, mentre il governo dovrebbe consentire la libera espressione delle opinioni, evitando censure e pressioni dirette o indirette. Molti degli intervistati vedono nei media, soprattutto nelle radio – accessibili alla maggioranza della popolazione – un mezzo indispensabile per favorire la diffusione delle idee su cui lavora la società civile; un veicolo adatto a spiegare l’importanza della partecipazione collettiva alle questioni di interesse comune e per far maturare la consapevolezza dei cittadini sui diritti umani. Ai media, se correttamente usati, viene inoltre riconosciuto un ruolo cruciale nella riaffermazione di un senso civico compromesso da decenni di guerra, oltre che di una cultura di pace capace di trascendere le divisioni etniche e territoriali ancora presenti in Afghanistan. Tra gli intervistati c’è piena consapevolezza che “ottenere e scambiare informazioni sulle questioni pubbliche è un altro metodo efficace che la società civile può usare per sviluppare una governance democratica…”, e che il libero scambio di informazioni è “uno strumento essenziale per combattere la corruzione e l’abuso di potere…”, perché rende “lo Stato responsivo, così che venga incontro ai bisogni della gente”.
Uno sguardo dall’interno
Se la comunità internazionale tende a identificare come società civile prevalentemente le Ong strutturate, dalla ricerca emerge l’esigenza di rivedere questa equazione. Le Ong, è stato più volte ribadito, costituiscono solo una parte di una ben più complessa topografia dell’associazionismo afgano. Secondo la maggior parte degli intervistati, in Afghanistan la società civile “non è un gruppo omogeneo; include uno spettro molto ampio di organizzazioni formali e informali, associazioni, movimenti e gruppi sociali”. Se è vero che esiste una “società civile prodotta”, modellata dai partner internazionali, è altrettanto vero che, al di là di questa e all’interno di essa, esiste una galassia variegata, piuttosto attiva e diffusa, di gruppi che rivendicano pienamente la capacità di trovare percorsi di autonomia progettuale, a dispetto delle condizioni di sicurezza e dello scarso sostegno ricevuto. Un panorama composto da gruppi diversi, spesso informali o poco strutturati, che a volte non seguono alcuno statuto definito se non la volontà di aggregazione attiva. E che continuano a coagulare in modo collettivo risorse e capacità individuali, a dispetto della disillusione sulla mancata ricostruzione del paese e sul mancato coinvolgimento da parte del governo. E nonostante lo schiacciamento subito tra i vari attori politico-militari, inclusa la comunità internazionale.

Seguendo le opinioni raccolte, della società civile afgana fanno parte infatti tutte le persone e i gruppi che assumono un ruolo attivo nella società, che lavorano con assiduità e continuità su alcune tematiche di rilevanza comune; tutti coloro che si sentono responsabili e in virtù di questa responsabilità attivano dei progetti di interesse collettivo; tutti coloro che sono coinvolti nel lavoro umanitario e nel rafforzare le istituzioni democratiche. Il concetto di società civile che ne esce è di tipo inclusivo, indica delle forme di associazionismo dai confini porosi, che variano nel grado di autonomia e formalità, composte da soggetti legati dalle attività che svolgono e dagli obiettivi che le animano più che dalla struttura che si danno. Le attività e gli obiettivi con cui si identificano i gruppi appartenenti alla società civile sono poco rigidi, e rimandano alla priorità accordata all’interesse collettivo sul profitto personale, alla ricerca del dialogo costruttivo e condiviso piuttosto che all’imposizione del proprio punto di vista mediante la forza o in virtù di uno status autoritario acquisito. Si tratta dunque di un insieme “sfocato” di associazioni e singoli individui, che contraddice l’assioma del conflict fetish, secondo il quale nei paesi in guerra “la violenza è il problema e l’unica lente attraverso cui guardare alla vita delle persone”.

I partecipanti alla ricerca intendono la società civile come un insieme piuttosto eterogeneo di gruppi culturali e giovanili, media indipendenti, associazioni per i diritti umani, sindacati, organizzazioni di donne, strutture tradizionali, avvocati, religiosi, attivisti e semplici cittadini. In una situazione di estrema vulnerabilità e precarietà, rivendicano il ruolo fondamentale svolto fin qui, avendo organizzato incontri e dibattiti, campagne di opinione e di informazione, e in senso più generale avendo promosso la coesione sociale tra comunità diverse. Oltre a questo, alcuni rivendicano la lunga tradizione afgana di attività riconducibili all’idea di società civile, che si sarebbe espressa in forme diverse da quelle più familiari alla comunità internazionale ma non meno efficaci né importanti. Per alcuni, bisogna distinguere tra il termine ‘società civile’, adottato recentemente, e le attività a cui si riferisce, radicate anche in Afghanistan. Altri, pur consapevoli che il termine società civile porta con sé connotazioni storico-culturali che ne influenzano la stessa ricezione, rivendicano la necessaria maturità per modellare sulla realtà afgana in modo originale e produttivo un concetto che rimane estraneo alla maggioranza della popolazione. Ajmal Samadi (ARM, Kabul) riassume così: “Quello di società civile non è un concetto nuovo. L’Afghanistan ne ha avuto esperienza in passato. Non abbiamo vissuto in anarchia. Ci sono state diverse espressioni istituzionali e della società civile. La realtà dunque è che si può parlare di società civile in Afghanistan da decenni, forse da secoli. Certo, nel periodo post-talebano si è diffusa una nuova terminologia, ma il fatto che si faccia ricorso a parole nuove non significa che siano inedite le attività a cui si riferisce. Qualcuno pensa che società civile significhi promozione di una visione secolare e dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere, ma già negli anni Sessanta c’erano donne che sedevano nel parlamento afgano; inoltre, il secolarismo come idea politica già circolava nel paese sotto il regime comunista. Ai tempi dei sovietici si parlava di internazionalismo, oggi gli Stati Uniti hanno portato con sé tutta una serie di nuovi termini, ma non sono così nuovi come sembrano”.

Sulla base della consapevolezza maturata negli ultimi anni sul proprio ruolo e le proprie responsabilità, gli intervistati non nascondono, oltre ai progressi raggiunti, i limiti che condizionano l’efficacia della società civile: la mancanza di coordinamento, la fragilità delle proposte, la difficoltà a identificare priorità e obiettivi precisi e a individuare gli strumenti più adatti con cui tradurre efficacemente orientamenti etici e posizioni normative nel quadro politico-legislativo, senza perdere autonomia.


* Questo testo è una sintesi della ricerca “La società civile afgana. Uno sguardo dall'interno” che è parte del progetto sulla società civile afgana promosso dal network italiano “Afgana”, realizzato con il contributo finanziario del Ministero degli Affari Esteri/Cooperazione italiana e con l’assistenza logistica di Intersos. E' frutto di tre mesi di lavoro sul campo in 8 delle 34 province afgane nel corso del 2010. Per esigenze di lettura sono state eliminate le note e gran parte delle interviste cui corrisponde gran parte dei virgolettati.
Giuliano Battiston, è ricercatore e giornalista freelance: oltre ad aver viaggiato a lungo in Afghanistan, realizzando reportage, è autore di due libri-intervista: Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione, e Per un’altra globalizzazione (Edizioni dell’Asino).

Acronimi
ACBAR Agency Coordinating Body for Afghan Relief
ACSF Afghan Civil Society Forum
ADA Afghan Development Association
AHRO Afghan Human Rights Organization
AIHRC Afghanistan Independent Human Rights Commission
ARCS Afghan Red Crescent Society
AREU Afghan Research and Evaluation Unit
ARM Afghanistan Rights Monitor
AWEC Afghan Women’s Educational Center
AWN Afghan Women’s Network
CCA Cooperation Center for Afghanistan
CDC Community Development Council
CHA Coordination of Humanitarian Assistance
CPAU Cooperation for Peace and Unity
CSDC Civil Society Development Center
CSHRN Civil Society Human Rights Network
CSO Civil Society Organization
CSSC Civil Society Support Centers
FCCS Foundation for Culture and Civil Society
HAWCA Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan
ICNL International Center for Not-for-Profit Law
I-PACS Initiative to Promote Afghan Civil Society
IWA Integrity Watch Afghanistan
LAOA Legal Aid Organization of Afghanistan
MRRD Ministry of Rural Rehabilitation & Development
NSP National Solidarity Program
SDO Sanayee Development Organization
SWABAC South-West Afghanistan Balochistan Association for Coordination
TLO The Liaison Office
USAID US Agency for International Development

Fonte: Lettera22, Terra

29 agosto 2011

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