Vita da reporter: di morte e di gloria


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Steve è un giornalista che continua a infiltrarsi Birmania con le milizie etniche che combattono il regime. Steve


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Vita da reporter: di morte e di gloria

Steve è un giornalista che continua a infiltrarsi Birmania con le milizie etniche che combattono il regime. Steve – non è il suo nome, ovviamente – rischia grosso. Più degli altri giornalisti che si occupano di quella storia. Lui è birmano. In quanto tale, la sua è anche una questione personale, un modo di fare opposizione. Ma ogni volta che lo incroci, ti accorgi che, oltre ogni ideale, Steve è spinto da un altro fattore umano: si “diverte”, è drogato di adrenalina.
 
Al Foreign Correspondent Club di Bangkok gente come lui ne incontri parecchia. Roland Neveu, ad esempio, che ha documentato tutti gli orrori di questa parte di mondo, e non solo questa, testimone della caduta di Phnom Penh in mano ai khmer rouge, nel 1975. A quanto pare, il personaggio del fotografo nel film “Urla nel silenzio” è ispirato a lui.
 
Altro personaggio del genere è Bertil Lintner, il maggior esperto di “affari sporchi” dell’area, che sia traffico di droga o esseri umani. Pur avendo contribuito a smascherare le “simbiotiche relazioni tra governi, servizi segreti, trafficanti”, non ha un approccio moralistico al lavoro di reporter. “Non è il mio lavoro scrivere chi è buono o cattivo. Alla fine sono tutti cattivi. Certo, non puoi restare imparziale, non esistono fatti separati dalle opinioni. Ma ciò non significa schierarsi. Sono un giornalista, uno scrittore. Non un soldato, un missionario” dice. Anche per lui, oltre le paure e i rischi, è onnipresente il senso del divertimento. “Ho incontrato Khun Sa molte volte”, racconta, parlando del più famigerato Druglord asiatico. “Ci siamo divertiti di parecchio. È molto più divertente scrivere di droga e signori della guerra che analisi economiche”.
 
Nel club mondiale dei reporter di guerra, dei giornalisti impegnati su fronti rischiosi, è un’opinione diffusa. Solo che sono pochi a correre il rischio, molto maggiore, di esprimere un’idea tanto politicamente scorretta. Così, dopo la morte in Libia del filmaker americano Tim Hetherington e del fotografo inglese Chris Hondros, si è scatenata “un’orgia di prosa emotiva sul senso del sacrificio per la causa della verità”. A dirlo è uno dei pochi fuori dal coro, Max Hastings, autorevole giornalista inglese, corrispondente di guerra negli anni ’70 e ’80. “Quando ero giovane e lavoravo sul campo non ho mai dubitato del valore di ciò che stavamo cercando di fare. Ma né io, né, suppongo, più di una minima frazione dei miei colleghi, ci trovavamo sotto il fuoco in nome dell’umanità sofferente. Lo facevamo perché ci piaceva l'avventura e ogni giornalista ambizioso sa che le guerre sono la via più veloce e affascinante per crearsi una reputazione” ha scritto Hastings in un recente articolo pubblicato dal Financial Times col titolo di “Death or Glory”, morte o gloria. L’analisi di Hastings è molto complessa e rappresenta una vera e propria storia della “moderna cultura della corrispondenza di guerra”, che fa iniziare con i reportage di William Howard Russell per il Times dal fronte di Crimea nel 1854. Da allora le cose sono molto cambiate, specie negli ultimi decenni: “I rischi sono aumentati considerevolmente, come dimostra il tasso di mortalità tra i giornalisti, ben più alto che ai miei tempi. Molti conflitti sono combattuti tra bande rivali di guerriglie caotiche e omicide”. Ma il movente esistenziale è sempre lo stesso: “Le guerre ti danno una scarica d’adrenalina come nessun’altra storia”. Il che spiega perché molti giornalisti che hanno superato i sessant’anni e potrebbero restare al riparo di una scrivania (come ha scelto di fare Hastings) continuano a battere le piste più pericolose del pianeta.
 
“Chiunque si trovi sul lato sbagliato dei sessant’anni e creda di poter fare qualcosa di buono andando in guerra a bordo di un elicottero da combattimento in uno dei più remoti angoli del pianeta o è un tantino pazzo oppure si fa le canne” scrive Al J. Venter, aggiungendo subito che, nel suo caso, non vale nessuna delle due condizioni. Perché lui è un reporter di guerra. Di guerre ne ha seguite tante, ancor prima di superare i sessanta, soprattutto in Africa, a fianco di quelli che un suo vecchio collega, Frederick Forsyth, ha definito “I mastini della guerra”, i mercenari. L’episodio a cui si riferisce risale all’estate del 2000, quando era embedded tra i mercenari della Executive Outcomes che combattevano contro i ribelli che volevano rovesciare il governo del Sierra Leone. Lo racconta nel libro War Dog. Fighting Other People’s War. The Modern Mercenary in Combat. Anche qui, per l’ennesima volta, il senso del divertimento è palese. Basta leggere poche righe di quel volo in elicottero: “‘Se succede qualcosa, devi dare una mano anche tu. ‘Combattere’, mi aveva detto l’artigliere libanese con un sorrisetto ironico. In quel caso non ci sarebbero stati se o ma, aveva aggiunto, tanto per ribadire il concetto. Una volta aveva scherzato sul fatto che, come giornalista, non dovevo preoccuparmi. ‘Alla più brutta, basta che gli fai vedere la tua tessera stampa’ aveva detto ridacchiando”.
 
Tutto ciò, per quanto cinico possa apparire, non significa mettere in dubbio le capacità e la dedizione della maggior parte dei reporter. Significa focalizzare la loro condizione umana. In un certo senso è quanto hanno fatto lo stesso Hetherington e Sebastian Junger – scrittore noto per La Tempesta Perfetta – nel lavoro che è valso a Hetherington la nomination all’Oscar per il miglior documentario: Restrepo. Il film racconta in diretta un anno di vita di un plotone di soldati americani in un remoto avamposto afgano. È un lavoro potente, di straordinaria complessità. Un’opera in cui la guerra appare come una forza della natura che si diffonde nel mondo per mettere alla prova la forza, il coraggio e l’intelligenza degli uomini, come una condizione senza tempo dell’uomo.
 
In questa prospettiva il rischio può essere ancor più profondo. La dipendenza da adrenalina può divenire mortalmente tossica tra i giovani war junkies, drogati da guerra, che inseguono il pericolo senza alcuna preparazione. Né culturale, né tecnica. A risolvere il secondo problema ci ha pensato Rosie Garthwaite, giornalista di Al Jazeera che ha scritto un prezioso manuale: How to Avoid Being Killed in a War Zone, come evitare di essere uccisi in zona di guerra, basato sulle sue esperienze personali in Iraq col contributo di altri colleghi, medici e operatori di organizzazioni non governative. Non ci sono manuali, invece, per sfuggire al rischio esistenziale, lavorando in bilico tra demoni e suggestioni, tra divertimento e idealismo, dove è facile cadere nel moralismo e ancor più cedere all’eccesso.
 
Qualche sera fa Steve raccontava la sua ultima avventura conclusa in una prigione di frontiera. “In Thailandia o in Birmania?”, ha chiesto un giovane collega americano. “Se mi avessero arrestato i birmani non sarei qui”, ha risposto ridendo. Poi ha offerto una birra proponendo di accompagnarlo in un altro tour birmano. “Ci divertiremo”.

Fonte: Fareitalia

 

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