Un Vangelo per la Palestina e i popoli oppressi


Michele Giorgio


Natale nei Territori occupati. Intervista a Omar Karami, direttore del Centro ecumenico Sabeel, emanazione della Teologia della Liberazione palestinese: «Durante la prima Intifada scoprimmo nei testi sacri il principio di giustizia e le ragioni della nostra ansia di libertà»


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Il Natale accende i riflettori sulla comunità palestinese cristiana e sulle sue organizzazioni politiche e sociali oltre che religiose. In via Shuaffat, nella zona araba (est) di Gerusalemme, sono giorni intensi per il Centro ecumenico Sabeel, una delle rappresentazioni più progressiste della società civile cristiana, figlia della Teologia della Liberazione palestinese.

Ci siamo fatti spiegare Sabeel e il suo sostegno ai diritti dei palestinesi sotto occupazione dal suo direttore, Omar Karami.

Quanto la Teologia della Liberazione in Palestina è legata alla Teologia della Liberazione sorta in seno alla Chiesa cattolica una quarantina di anni fa e che ebbe un forte impulso in America Latina?

Il legame non si è instaurato subito, è venuto dopo la nascita di Sabeel grazie alla volontà del nostro ispiratore, padre Naim Ateek. Sabeel ha visto la luce durante la prima Intifada palestinese (1987), come espressione dell’attivismo cristiano. A quell’epoca ero molto giovane e come quelli della mia età chiedevo libertà per il popolo palestinese sotto occupazione israeliana. Yasser Arafat, non lo dimenticherò mai, ci chiamava i «leoni» dell’Intifada. In quei giorni ci ponevano degli interrogativi, anche di natura religiosa.

Come cristiani ci sentivamo fortemente penalizzati dal fatto che i leader delle varie Chiese non erano palestinesi ma stranieri e ci dicevano che le sacre scritture affermano che la nostra terra, la Palestina, in realtà non è nostra ma appartiene per volontà divina a un altro popolo, gli ebrei. Non ci convinceva, eravamo sbigottiti. Ma come, ci dicevamo, viviamo qui, siamo i discendenti dei primi cristiani dopo Gesù e la terra non ci appartiene? Era un discorso privo di senso. Dio non poteva essere così perfido. Allora padre Ateek cominciò a leggerci il vecchio e il nuovo Testamento in un modo totalmente diverso, lo fece da una prospettiva palestinese. E scoprimmo nei testi sacri e nell’insegnamento di Cristo le ragioni dell’ansia di libertà, di emancipazione del nostro popolo. In quei giorni vide la luce Sabeel, centro ecumenico e di dialogo con tutti, ma radicato sul principio della giustizia per i popoli oppressi.
Quando avvennero i contatti con gli esponenti della Teologia della liberazione in America latina?

Non ricordo con precisione, parliamo di trent’anni fa. Però avviammo un dialogo profondo con le realtà in America latina, dove peraltro sono presenti comunità di palestinesi cristiani. Trovammo molte affinità e allo stesso tempo differenze importanti. Loro puntavano molto sulla giustizia sociale e la battaglia contro la povertà, sulla lotta contro i regimi dittatoriali dell’epoca. Noi invece, pur avendo sensibilità per i temi sociali, eravamo più concentrati, come oggi, sul rapporto di un popolo con la sua terra, sul legame con le radici identitarie. Talvolta durante le conversazioni di carattere religioso, alcuni esponenti della Teologia della Liberazione sudamericana battevano sull’Esodo (il secondo libro della Bibbia che racconta degli ebrei in Egitto, della schiavitù e della liberazione grazie a Mosè e il lungo soggiorno nel deserto del Sinai, ndr). La cosa non ci piaceva, perché quel discorso sembrava volto a ribadire che la terra di Palestina non ci appartiene anche se ci viviamo.

Sabeel è un centro ecumenico, le sue iniziative hanno un forte contenuto religioso e, sottolineava lei prima, sono fondate sull’insegnamento di Cristo. Hanno però anche un significato politico. Sabeel si rivolge a tutti coloro che vivono in questa terra, ma a quale soluzione del conflitto dà il suo sostegno? Due Stati per due popoli? Oppure a uno Stato unico su tutta la Palestina storica per palestinesi ed ebrei?

Voi giornalisti avete il torto di semplificare tutto. Nella testa dei palestinesi ci sono quattro e non due soluzioni. La prima, sulla base di una lettura anticoloniale del sionismo, vorrebbe che gli israeliani facciano retromarcia e la terra torni alla popolazione indigena. La seconda, di stampo islamista, prevede una sovranità piena per i musulmani e libertà per gli israeliani di scegliere se rimanere o meno in uno Stato sotto l’autorità palestinese. La terza è quella dello Stato unico per i due popoli. Infine c’è quella dei due Stati, Israele e Palestina, che Sabeel ritiene ancora la più realistica. Perché lo Stato unico per palestinesi ed ebrei appare impossibile osservando la realtà sul terreno e tenendo conto delle volontà dei due popoli.

Tra poche ore sarà Natale. Come lo vivranno i palestinesi cristiani?

Gli aspetti commerciali del Natale prevalgono anche qui. Però i palestinesi cristiani sono uguali agli altri palestinesi, ai musulmani, e devono fare i conti con la realtà (dell’occupazione, ndr). Ebbene, tenendo presente anche le forti difficoltà che i cristiani di Gaza in questi giorni di festa devono affrontare per raggiungere Gerusalemme e Betlemme (a causa delle restrizioni israeliane, ndr), crediamo che sia profondamente ingiusto che i discendenti dei primi cristiani, legati a doppio filo alla loro terra, la terra della parola di Cristo, siano costretti a dover chiedere permessi su permessi (alle autorità israeliane, ndr) per visitare i loro luoghi sacri nella Terra Santa, mentre possono farlo senza problemi i cristiani provenienti dall’estero. Ci appare disumanizzante. Natale per noi vuole dire stare dalla parte degli oppressi, sfamare gli affamati e dare amore senza compromessi. Ma non un solo giorno all’anno, Natale per noi è ogni giorno.

Michele Giorgio

24 dicembre 2019

Il Manifesto

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