Rabbia e tensione al corteo per Cucchi


Cinzia Gubbini


Il corteo organizzato dai centri sociali della capitale, dall’osservatorio antirazzista e da diversi comitati di quartiere per chiedere verità e giustizia sulla morte di Stefano Cucchi ha portato con sé qualcosa che qualcuno temeva e molti non si aspettavano…


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Rabbia e tensione al corteo per Cucchi

«Bastardi, bastardi», «giustizia per Stefanino». Il corteo di ieri organizzato dai centri sociali della capitale, dall'osservatorio antirazzista e da diversi comitati di quartiere per chiedere verità e giustizia sulla morte di Stefano Cucchi ha portato con sé qualcosa che qualcuno temeva e molti non si aspettavano: la rabbia dei «pischelli» della zona, ragazzi da stadio, che snobbano qualsiasi mediazione politica e che esplodono dentro quattro strade sigillate dai blindati di polizia e carabinieri. Sanno che la polizia e i carabinieri sono quelli che è meglio non incontrare. E adesso le foto di Stefano, fermato per 20 grammi di marijuana e morto in un reparto ospedaliero con la faccia gonfia di lividi e due vertebre fratturate, glielo ricorderà per sempre. «Era uno di noi», gridano lungo le strade di Tor Pignattara. La loro rabbia – e il modo in cui la sanno esprimere – non si è fermata di fronte alle parole di Ilaria, la sorella di Stefano: «Ringraziamo tutti quelli che stanno manifestando, esprimendo la loro solidarietà. Chiediamo per rispetto del nostro dolore e di Stefano di proseguire questa manifestazione con compostezza». C'era già stato il lancio di bottiglie contro la celere all'inizio. Poco dopo, alla fine del corteo, comincia il «panico»: petardi contro la polizia, cassonetti bruciati. Che poi si sposta più avanti sulla Casilina. Il panico è soprattutto della gente del quartiere, Tor Pignattara, primissima periferia di Roma sud. Il posto dove la famiglia Cucchi abita da sempre, e dove Stefano è cresciuto. Un quadrante che ha mantenuto tutta la sua anima popolare, rivisitata al giorno d'oggi: affacciati su strade e stradine spuntano visi di bimbi, di anziani e di uomini e donne dell' Africa e dell'Asia che vivono vicini senza sopportarsi molto. Ma oggi tutti gli occhi sono per il corteo. Vuole chiudere e andare a casa «perché ho paura» la signora del tabacchi, e lo stesso fa in fretta e furia la signora bangldesha del negozio di frutta. In verità i momenti più violenti si concentrano all'inizio e alla fine della manifestazione, in mezzo c'è un corteo che lungo la strada si riempie di gente, gente del quartiere, con gli organizzatori che dalla testa ripetono al microfono: «Stiamo manifestando per chiedere verità e giustizia per la morte di Stefano, non c'è nessun bisogno di essere aggressivi». Lo striscione di apertura dice: «Non si può morire così. Basta vite spezzate dalla violenza di Stato». Sulla saracinesca della sede di An qualcuno scrive: «Siete responsabili». Non è uno sfregio stupido. Stefano è stato fermato e accusato di spaccio anche in base alla logica proibizionista della legge Fini-Giovanardi: sono decine i ragazzi che qui raccontano di come vengono fermati, controllati «per due canne». Da poliziotti e carabinieri che hanno la mano pesante. Che Stefano sia stato pestato dai carabinieri oggi è dato per assodato. E non solo dai «pischelli». Davanti al portone del palazzo dove abita la famiglia Cucchi, dove il corteo si è fermato per qualche intervento al microfono, dice un signore: «Io abito da sempre nel quartiere. Stefano non lo conoscevo. Ma so che era un ragazzo tranquillo, che non aveva mai dato fastidio a nessuno. E mi chiedo: ma perché lo hanno ridotto così? Che bisogno c'era?». Parole sincere, a cui rispondono cori arrabbiati: «Assassini». I condomini hanno appeso uno striscione «Il tuo sorriso rimarrà per sempre nei nostri cuori». Scendono Giovanni e Rita, i genitori. Parla Ilaria, sua sorella. Prova a intercettare il codice di quelli più arrabbiati, e ci tiene a esprimere «solidarietà alla polizia»: «Stefano era un ragazzo come tanti e noi lo amavamo infinitamente: intelligente, sensibile, altruista e buono. Amava la vita e la droga gliel'ha rovinata e distrutta. Non doveva comunque morire così! Cerchiamo verità e giustizia e proprio per questo Stefano non deve essere per nessuno né un eroe, né un modello, né un motivo di odio o violenza». Poco dopo vanno a fuoco i cassonetti a cui rispondono i lacrimogeni della polizia. Sui muri del quartiere rimane appesa una verità: i nomi di Stefano, di Federico Aldrovandi e di Aldo Bianzino: «consumatori uccisi dallo Stato».

Fonte: Unita.it

8 novembre 2009

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