“Questo modello Usa è al capolinea chi vincerà dovrà reinventare il Paese”


Martino Mazzonis


Marcus Raskin Scienziato politico, attivista, fondatore dell’Institute for Policy Studies, professore di Politiche pubbliche. Ex consigliere del presidente Kennedy.


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“Questo modello Usa è al capolinea chi vincerà dovrà reinventare il Paese”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marcus Raskin di politica ne ha vista parecchia. E’ arrivato a Washington nel 1958, ha lavorato nello staff di John Fitzgerald Kennedy sulla sicurezza nazionale e sul bilancio e poi, nel 1963, ha fondato l’Institute for Policy Studies, un think tank liberal- progressista che si occupa di disarmo, politiche pubbliche e che osserva e critica l’attività delle istituzioni.
Professore di Politiche pubbliche all’università George Washington, Raskin è un’istituzione della sinistra liberal americana che si mischia con Washington, la critica ma lavora con quegli eletti che dimostrano sensibilità e interesse su alcuni temi. Con questo anziano ebreo del Wisconsin dalla testa lucida e la voce molto bassa, in Italia per una serie di conferenze, abbiamo chiesto di parlare della fase politica americana.

Partiamo da un tema di cui si discute molto: a suo parere queste elezioni saranno o no un momento di passaggio cruciale nella storia politica statunitense?
E’ un momento di grande interesse. Una vittoria democratica coinciderebbe con l’addensarsi di grandi problemi all’orizzonte – per gli Stati Uniti e per il mondo. Gli Usa sono ancora la prima potenza mondiale ed hanno attraversato l’ultimo decennio con un’arroganza senza eguali, commettendo errori di valutazione, di strategia e persino morali. Il presidente Bush ha usato proprio la morale per giustificare uno sforzo bellico che sta costando vite americane e sofferenze enormi in Iraq e Afghanistan. Oggi si riconosce, in maniera quasi unanime che l’Iraq è stato un errore sotto ogni punto di vista. Presto dovremo fare la stessa valutazione per l’Afghanistan.
Poi c’è il riscaldamento globale, forse la grande questione pubblica del XXI secolo. E per finire c’è il collasso del neoliberismo come sistema che fornisce risposte. Ha funzionato per 25 anni, ma oggi l’idea di andare avanti con un sistema di tassazione regressivo, servizi affamati di risorse e un sistema educativo e sanitario allo sbando non regge più. Cosa rimpiazzerà questo modello? E’ una domanda enorme e sarà una discussione gigantesca.
Faccio un altro esempio: la deindustrializzazione di certe aree ha creato delle città fantasma. E’ inutile raccontare a quei lavoratori che bisogna fare la formazione. A meno di non lavorare a un piano per la ricostruzione sociale ed economica di quelle aree è inutile fare formazione per lavori che non esistono. E per avere un piano, ci servirà avere idee nuove e diverse. Ad esempio capire che tornare ad allargare la sfera dei diritti non è fattibile a spese di altri Paesi.
Ecco, ciascuno di questi enormi problemi sarà sul tavolo del prossi-mo presidente e del nuovo Con-gresso e, chiunque vinca, non potrà affrontarli con il vecchio schema. Proprio per questo, come dicevo all’inizio, quella che si apre è una fase di grande interesse».

E il partito democratico, i suoi candidati, le sembrano attrezzati per questo momento? Hanno idee, una base sociale coesa, voglia? Direi che la risposta precedente ci porta necessariamente a parlare di Obama. Ad oggi il senatore dell’Illinois ha dato il segnale che se verrà eletto ci sarà la possibilità di affron- tare le grandi questioni in maniera differente. Per ora sono segnali e non molto di più. Obama avrà biso-gno di intelligenze, università, think tanks, media e persino altri governi, che producano idee e comincino dei discorsi seri sui globalizzazione, ambiente, diritti. E avrà bisogno di mobilitazioni. Per ora ha giovani, accademici e liberal con lui. Nei prossimi mesi dovrà saper parlare a quella classe lavoratrice bianca e conservatrice permeata di valori patriottici su cui McCain potrebbe esercitare un certo fascino.
C’è una frase che Roosevelt usava ed era più o meno «Sono d’accordo con quello che dici adesso vai fuori e fai pressione per spostarmi sul tuo terreno». Il governo può fare e i movimenti possono legittimare e spingere per il cambiamento. Un aggiunta: in America le mobilitazioni non possono non essere non violente. La violenza nel mio Paese ha sempre e solo generato ondate repressive. Le grandi mobilitazioni pacifiche, e poi, sono le uniche in grado di tenere assieme spinte diverse.

Che eredità lascia l’amministrazione Bush? Quali sono le prime cose da fare?
La peggiore, ma non ha cominciato lui. Io sono tra quelli – e ce ne sono – che hanno argomentato in maniera approfondita la necessità di arrivare all’impeachement per il presidente e il suo vice, ma è dalla fine della Se- conda guerra mondiale che la democrazia americana è lentamente scivolata verso un’idea di “Stato della sicurezza nazionale”. Se la democrazia ha alla sua base la trasparenza, ormai è la segretezza a guidarci. Le politiche di Bush sono l’estremizzazione di quella china, pensate per mantenere al centro quel modello di “Stato guerriero”. In America diciamo che uno farà tutto quello di sbagliato che può fare fino a quando non ci sarà più niente di sbagliato da fare.
Ecco siamo a quel momento. In Iran possiamo bombardare o dialogare. Oppure – ma questo è un tema sul tavolo – la Banca centrale ha speso miliardi per intervenire in soccorso del sistema bancario a rischio di collasso a causa della crisi del mercato immobiliare. Quello è intervento pubblico in economia e la gente se
ne è accorta. Che faranno le istituzioni finanziarie nazionali, interverranno per aiutare i milioni messi fuori casa perché le banche li hanno truffati con dei prestiti capestro?
Questa questione è già sul tavolo del prossimo presidente. Il problema è capire se c’è una struttura politica uniforme capace di intervenire con idee. Quante idee diverse hanno i democratici? Mi spiego, il mio istituto oggi lavora con circa 70 tra deputati e senatori. Quelli più progressisti. Alle prossime elezioni i repubblicani perderanno quasi sicuramente molti seggi in Stati dove anche i democratici sono un po’ conservatori. Questo significa che il conflitto che oggi c’è tra i due partiti si potrebbe riproporre all’interno della maggioranza democratica. Un presidente forte e capace potrebbe comunque dettare l’agenda politica. Noi e molti altri stiamo lavorando per produrre idee in vista di novembre.

La sinistra americana, che spesso si è disinteressata delle elezioni o ha votato Nader, sembra partecipare con più foga che in passato alla campagna presidenziale. E’ solo colpa (o merito) di Bush?
Il fatto che a correre per la nomination siano un nero e una donna è un fatto ironico e affascinante, ed è normale che la sinistra sia più coinvolta del solito. La prima cosa buffa è che i diritti delle donne e l’abolizione della schiavitù sono i grandi temi che portarono alla formazione del partito repubblicano, che oggi non ha né i voti delle donne, né quelli dei neri. La seconda cosa ironica è che il destino di Hillary Clinton è legato alle decisioni del Democratic national commitee (l’organo centrale del partito democratico che dovrà decidere se e come accettare i delegati di Florida e Michigan alla convention che nominerà il candidato presidente; senza quei delegati Hillary ha perso di sicuro, con quei delega- ti, ha qualche speranza di farcela, ndr). Se guardiamo alle elezioni del 1994, ’96 e ’98, osserviamo che il presidente Clinton ha sempre perso voti e, pur riuscendo ad essere rieletto, ha perso la maggioranza al Congresso e si è adeguato alle politiche repubblicane sul commercio internazionale, la pena di morte, la sanità. Alla sinistra e a parti importanti dei democratici non piace affatto l’idea di rivederlo alla Casa Bianca. Anche perché, lo sanno tutti, con la famiglia Clinton, voti uno e prendi due. E’ stato così con Hillary first la- dy e sarebbe così di nuovo.

Come si potrebbe risolvere questo braccio di ferro Clinton-Obama?
Obama potrebbe promettere a Hillary un posto alla Corte suprema. Lei ha la formazione necessaria e, in un posto così, sarebbe lontana dal- l’ombra del marito. L’idea della vicepresidenza mi pare sballata, per Obama sarebbe un inferno. Poi c’è da tener conto che i Clinton si sono indebitati per questa campagna. Con gli anni hanno imparato ad amare molto il denaro, Obama potrebbe aiutarli a ripagare il debito.
E’ una cosa che spesso il candidato presidente fa con i concorrenti che ha battuto alle primarie.

Fonte: Liberazione

30 maggio 2008

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