Nairobi, un anno dopo …


Francesco Cavalli


“A year later”. Così titola la prima pagina di oggi il Saturday Nation in Kenya. Sotto il titolo, affiancate, le due foto di Raila e Kibaki.


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Nairobi, un anno dopo …

Un anno fa come oggi infatti si svolgevano qui in Kenya le elezioni presidenziali e politiche che vedevano il confronto fra Raila Odinga, rappresentate luo che sfidava Mwai Kibaki presidente in carica di etnia kikuyu.
Quelle stesse elezioni nei giorni di fine dicembre avrebbero scatenato quell’ondata feroce di scontri e violenze che per alcuni mesi hanno insanguinato il paese. Scontri iniziati già prima della comunicazione dei risultati, quando si susseguirono voci di brogli e anticipazioni sulla vincita poi confermata del presidente uscente.
Un anno dopo il conflitto e le violenze sembrano molto lontani. Oggi i due contendenti sono l’uno Presidente, Kibaki, l’altro, Raila, Primo Ministro del Governo. Un esecutivo perfettamente fra le diverse etnie con un equilibrio degno del migliore manuale “Cencelli”. Tutto sembra tenere anche se la situazione economica del paese è in crisi. Alto il prezzo delle farine, scarsa la distribuzione della benzina, invariata la situazione dei più poveri che vivono negli slums. Tuttavia gli scontri rimangono – per fortuna – solo un ricordo.
Job vive a Kivuli, casa di accoglienza, per bambini e ragazzi di strada, della comunità di Koinonia, l’organizzazione di padre Kizito Sesana che da oltre vent’anni si occupa degli street children di Nairobi. È un ragazzo cresciuto oggi, ha studiato, è uno dei più grandi e responsabili di Kivuli. Ha le idee chiare rispetto a quello che è successo un anno fa e perché. Oggi – dice – non potrebbe succedere più. Perché? Ma perché la gente ha capito che la violenza e gli scontri non giovano a nessuno. I politici un anno fa hanno usato le identità etniche per alimentare gli scontri, oggi questo non potrebbe accadere di nuovo. Non solo perché oggi i due principali contendenti sono uno Presidente e l’altro Primo Ministro, ma anche e soprattutto perché la gente non è stupida e ha capito che è molto meglio cercare di costruire insieme piuttosto che fomentare separazione e violenza.
Job è un luya-kikuyu, più kikuyu perché tribù del padre, ma ci tiene a sottolineare che si sente più kenyano che kikuyu e che l’identità tribale, per quanto importante e forte nella tradizione, oggi viene dopo l’identità nazionale, o almeno è necessario che sia così.
E le ferite degli scontri? E tutti coloro che le violenze le hanno vissute sulla pelle e nelle proprie famiglie? Forgive and forget! This is the way. Perdonare e dimenticare! Questa è la strada. Anche su questo Job ha le idee molto chiare.
Qui a Kivuli i ragazzi e i bambini accolti sono di molte etnie diverse delle 42 che sono presenti in Kenya. Ognuna delle 42 tribù ha una propria lingua, la lingua è la principale chiave identitaria della tribù. Ma la lingua parlata in tutto il Kenya è lo swahili. Per Job bisogna partire da questo, dallo swahili per costruire quell’identità nazionale che possa superare le divisioni. Così com’è stato all’indomani dell’indipendenza dal Regno Unito avvenuta nel 1963 con il primo Presidente Jomo Keniatta. Lo swahili era la lingua dell’identità nazionale, per quanto sia una lingua relativamente recente, nata all’inizio del secolo scorso per motivi principalmente commerciali e fondendo insieme le lingue locali con il portoghese, l’arabo e l’inglese.
Nei primi giorni di gennaio di un anno fa, pochi giorni dopo l’inizio degli scontri, i ragazzi di Kivuli delle diverse etnie comprese le due principalmente coinvolte nel conflitto – luo e kikuyu – hanno manifestato per la pace con uno spettacolo acrobatico presso la Shalom House, altro centro gestito dalla Koinonia Community e sostenuto insieme alle case di accoglienza dei bambini e delle bambine di strada dall’associazione italiana Amani, parola che in swahili significa pace.

Articolo di Francesco Cavalli

27 dicembre 2008

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