Myanmar. Ritorno al passato


Piergiorgio Pescali


I militari hanno compiuto un colpo di stato mettendo agli arresti domiciliari nella capitale Naypyidaw, Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e altri leader della Lega nazionale per la democrazia (LND).


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birmania

Tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, poche ore prima che il nuovo parlamento eletto l’8 novembre 2020 si riunisse per la prima volta, i militari hanno compiuto un colpo di stato mettendo agli arresti domiciliari, nella capitale Naypyidaw, Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e altri leader della Lega nazionale per la democrazia (LND).

Min Aung Hlaing, comandante del Tatmadaw [le forze armate del Myanmar] e acerrimo nemico della consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, dopo aver preso il potere ha dichiarato lo stato di emergenza per un anno. Tutti i collegamenti sono stati sospesi e le notizie trasmesse dai media devono passare attraverso la censura.

Min Aung Hlaing, che dovrebbe ritirarsi dalla vita pubblica nel giugno 2021, quando compirà 65 anni, è ambizioso quanto Aung San Suu Kyi. Ha sempre visto la consigliera di Stato come una rivale non sopportando il suo successo elettorale, che è stato analizzato come una sconfitta personale e un imperdonabile affronto al suo prestigio.

Il 26 gennaio il portavoce del Tatmadaw, il generale Zaw Min Tun, aveva parlato di un possibile putsch per ristabilire l’ordine nel paese e durante tutta l’ultima settimana di gennaio il generale Min Aung Hlaing aveva dichiarato di essere pronto a proteggere la costituzione del 2008.

Le avvisaglie di un colpo di stato erano quindi evidenti, tanto che le ambasciate europee, degli Stati Uniti, dell’Australia e l’ufficio delle Nazioni unite presenti nel paese avevano già annunciato che si sarebbero opposte a un’eventuale presa di potere con la forza da parte dei militari.

I militari, assieme al partito a loro vicino, l’Union Solidarity and Development Party (USDP), hanno accusato il governo di frode elettorale durante le consultazioni dell’8 novembre 2020 che hanno consegnato all’LND la vittoria, assicurando ai suoi deputati 255 seggi su 440 e consentendo alla leader del partito altri cinque anni di governo.

Una delegazione di osservatori interni, pur ammettendo che qualche irregolarità era avvenuta, ha però negato che i risultati fossero stati alterati e dichiarato che il voto “riflette la volontà dell’elettorato”.

Nonostante la netta maggioranza parlamentare detenuta sin dal 2015, Aung San Suu Kyi ha poco spazio di manovra in campo costituzionale, uno dei temi di maggiore contrasto che la vede contrapposta a Min Aung Hlaing. La “Lady”, infatti, ha sempre dichiarato la sua intenzione di cambiare la costituzione birmana approvata nel 2008, che assegna in modo automatico il 25 per cento dei seggi (110) ai militari, ma dato che ogni emendamento richiede l’approvazione del 75 per cento dei deputati, nessun mutamento è possibile senza l’esplicito consenso del Tatmadaw.

D’altra parte qualunque governo birmano non può fare a meno dell’appoggio dei militari, in quanto il Tatmadaw è l’unica organizzazione interetnica presente nel paese capace di evitare la disgregazione politica portata dalle istanze di indipendenza di molte delle 135 nazioni etniche ufficialmente riconosciute.

I militari hanno guidato in modo dittatoriale il paese tra il 1962 e il 2010, quando il Myanmar ha iniziato la transizione democratica proprio con un governo condotto da un militare illuminato in pensione, Thein Sein.

Sempre nel 2010 Aung San Suu Kyi fu liberata dopo un lungo periodo di arresti domiciliari lasciando presagire che la strada verso la democrazia fosse spianata. Nel 2015 le elezioni avevano decretato la vittoria dell’LND e il governo fu affidato ad Aung San Suu Kyi, la quale si appropriò di tutte le cariche più importanti del paese: premier, ministro degli esteri, ministro dell’ufficio del presidente.

La nuova leader birmana fece poco o nulla per fermare le lotte etniche in atto contro la minoranza musulmana dei rohingya e contro quella cristiana dei kachin, guadagnandosi le critiche internazionali.

Questi severi giudizi hanno indebolito la figura di “eroina dei diritti umani” che la leader birmana si era costruita sin dal 1991, quando fu insignita del premio Nobel per la pace. Numerose organizzazioni, tra cui Amnesty International, ritirarono onorificenze a lei assegnate, 17 premi Nobel per la pace scrissero una lettera accusando Aung San Suu Kyi di complicità nel genocidio dei rohingya e anche l’Università di Oxford, in cui Aung San Suu Kyi aveva insegnato, rimosse una targa a suo nome.

Questo indebolimento internazionale si è andato ad aggiungere a una situazione interna instabile: il 25 per cento dei seggi parlamentari che la costituzione garantisce ai militari ha blindato praticamente ogni tentativo di cambiamento costituzionale. Accanto a questa precarietà politica si sono inserite la forti ingerenze cinese e indiana, le cui economie assetate di energia hanno sventrato il Myanmar causando forti proteste sociali che la stessa Aung San Suu Kyi ha soffocato con l’aiuto dei militari.

La presa del potere dei militari è quindi un regolamento di conti tra le due maggiori personalità del paese, ma è anche il risultato di una politica di contrasti che si è sviluppata nello stato del Rakhine subito dopo il 2010, con lo scoppio della crisi della minoranza musulmana dei rohingya.

Il conflitto nel Rakhine tra l’Arakan Army e il Tatmadaw è andato esacerbandosi sin dal 2019, inserendosi nel già difficile contesto della regione. I rakhine buddisti, che appoggiano in massa l’Arakan Army, vorrebbero la creazione di uno stato confederato con ampia autonomia, cosa che il governo birmano ha sempre negato dando pieno appoggio al Tatmadaw, ma distanziandosi dalla politica di Min Aung Hlaing.

Le elezioni dell’8 novembre 2020 erano state cancellate dalla Commissione elettorale dopo che, il 14 ottobre, l’Arakan Army, un gruppo armato formatosi nel 2009, aveva rapito tre membri della LND. L’organizzazione paramilitare è presente nella regione settentrionale dello stato del Rakhine, costituito per la maggioranza da buddisti rakhine e dove il conflitto con i rohingya non è così sviluppato come nelle aree meridionali a ridosso del confine con il Bangladesh. L’Arakan Army è legato con l’Arakan National Party (ANP), il principale movimento politico della regione (47 per cento dei voti contro il 19 per cento dell’LND). Pochi mesi prima delle elezioni, il governo aveva inserito l’Arakan Army nella lista delle organizzazioni terroristiche isolandolo dagli altri gruppi armati con cui aveva stipulato un cessate il fuoco, escludendolo così dalla conferenza di pace Panglong-21 tenutasi ad agosto.

Nel dicembre 2020, con l’intermediazione di Yohei Sasakawa, inviato giapponese del programma per la riconciliazione nazionale, Tatmadaw e Arakan Army accettarono un cessate il fuoco accordandosi per nuove consultazioni nello stato che si sarebbero dovute tenere entro gennaio. Il patto non è mai stato ratificato dal governo di Aung San Suu Kyi, il cui partito, pur avendo solo nove seggi rispetto ai 22 seggi dell’ANP nel parlamento regionale, guida il governo del Rakhine contravvenendo così ai principi costituzionali. Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha sempre diffidato (contraccambiata) di Sasakawa, considerato troppo vicino ai militari e troppo incline alle istanze etniche.

Il conflitto tra Min Aung Hlaing e Aung San Suu Kyi ha portato il Tatmadaw a distanziarsi sempre più dalla politica governativa sino a diventare, pradossalmente, un interlocutore più aperto nelle questioni etniche di quanto sia Aung San Suu Kyi. Nel Kachin, ad esempio, il Tatmadaw, a differenza di quanto ha fatto il governo, ha aperto un dialogo con la Chiesa battista e ha accettato di incontrare i leader etnici.

Il colpo di stato avvenuto in queste ore nel paese del sudest asiatico è quindi da vedersi come un regolamento di conti personale tra le due figure più in vista del Myanmar, che rischiano di far piombare sessanta milioni di cittadini in una nuova spirale dittatoriale.

 

Piergiorgio Pescali

1 febbraio 2021

Fonte: https://ytali.com/

 

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