L’Afghanistan addosso: l’addio al fronte con gli occhi dei reduci italiani


Giampaolo Cadalanu


Il fuciliere Barisonzi costretto sulla sedia a rotelle dal fuoco di un rinnegato, uno dei 650 rimasti colpiti nella missione che ora volge al termine: “Se potessi cambiare qualcosa, cancellerei la morte del mio compagno Sanna”. La mamma di un ucciso che ancora attende giustizia: “Sono caduti inutilmente”. E la dottoressa che cura le ferite dell’anima dei soldati tornati: “Si portano addosso rabbia, che rivolgono verso se stessi”


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No, non era far la guardia a un bidone di benzina. Per i soldati era fare il proprio dovere, prendersi le responsabilità, vivere un’esperienza da non scordare. Per i politici era, nel bene e nel male, lo sforzo di rimettere l’Italia nel gruppo delle nazioni che guidano il mondo, l’idea di ribadirne lo schieramento internazionale, il sogno mai davvero perseguito di far avanzare il sistema Paese, anche a costo di rischi e sacrifici. Ora suona la ritirata, Washington (e Roma) hanno deciso così, ed è un momento di bilanci della missione in Afghanistan per chi quei rischi correva, e ancora di più per chi quei sacrifici ha fatto.

“Se tornassi indietro, rifarei tutto allo stesso modo. Quello che mi è successo, l’ho accettato, perché sono sempre stato consapevole dei rischi che il mio lavoro comporta. E anche oggi sono fiero della mia scelta, fiero dell’uniforme che indosso”. Sono parole di Luca Barisonzi, il fuciliere della Brigata alpina “Julia” che la pallottola di un rinnegato afgano ha costretto sulla sedia a rotelle. E’ uno dei 650 che portano sul proprio corpo il segno doloroso della missione.

Nella sua seconda vita, Barisonzi si addestra per diventare un campione di tiro con la carabina per la squadra paralimpica delle Forze Armate. “E’ una bandiera”, dicono di lui i commilitoni, che dopo l’agguato lo hanno circondato di affetto. L’associazione Alpini ha organizzato una raccolta fondi che ha permesso la costruzione di una casa su misura, automatizzata e accessibile per la ridotta mobilità di Luca. E lui ringrazia e va avanti, a misurarsi con la paternità e a confrontarsi con la sfida di imprese alpinistiche, senza mollare mai.

“C’è un’unica cosa che vorrei cambiare”, aggiunge l’alpino: “Vorrei cancellare la morte del mio compagno Luca Sanna”. Ritorna sempre il legame forgiato fra compagni d’arme, il vincolo supremo di chi mette la vita nelle mani del vicino di trincea, e dunque il dolore senza fine per chi dall’Afghanistan non è mai tornato. Quel 18 gennaio del 2011, sulle colline di sabbia attorno all’avamposto “Todd”, un afgano con la divisa dell’esercito nazionale ha aperto il fuoco sugli italiani impegnati a consolidare la bolla di sicurezza, per garantire il libero passaggio della popolazione. Era il primo caso di “green on blue” sul contingente del nostro Paese, cioè l’attacco a tradimento di un presunto alleato.

Luca Sanna è uno dei 55 italiani uccisi in Afghanistan: in gran parte militari, poi due funzionari dell’Aise, due cooperanti civili e l’inviata del Corriere, Maria Grazia Cutuli. 

Ma la disperazione dei compagni difficilmente può eguagliare lo strazio dei genitori di un caduto, rimasti soli. E se anche le dinamiche della morte di un figlio sono poco chiare, la ferita non si può rimarginare. Annarita Lo Mastro, madre di David Tobini, caduto a 27 anni, si sente abbandonata. “Dopo dieci anni non ho ancora avuto le risposte a cui ho diritto”, dice Annarita. Suo figlio è rimasto ucciso in uno scontro vicino alla base avanzata di Bala Murghab, ma le analisi sul campo sembrano indicare un colpo esploso da distanza ravvicinata. Viene fuori il sospetto di un caso di “friendly fire”, l’errore di un commilitone, o peggio. La madre continua a chiedere chiarezza, anche nei tribunali. E sull’impegno militare in Afghanistan ha pochi dubbi: “Questi ragazzi sono caduti inutilmente. Qualcuno pensa di aver ottenuto un minimo di pace in quella terra, ma io ci crederò soltanto quando potrò portare un fiore dov’è caduto mio figlio”. 

Se le piaghe nel corpo si affrontano, se il supplizio dei familiari può iniziare a guarire solo attraverso la verità, c’è anche il tormento invisibile dell’anima. I medici la chiamano Sindrome da stress post traumatico: Amelia Alborghetti, psicologa della Sapienza, ha accolto lo sfogo e le lacrime di numerosi veterani. “Ho potuto constatare che molto spesso questi ragazzi si portano dentro una grande carica di auto-aggressività. Non è depressione, non è rancore verso l’esterno, ma una specie di rabbia che non riescono a esprimere, ma rivolgono verso sé stessi”. Anche questa ostilità è una forma di depressione, dice la specialista, che potrebbe indicare delusione per quello che si è fatto. “Molti dicono: se la realtà non corrisponde a quello che immaginavo, la colpa dev’essere mia”. 

Ma come la capacità di reagire dopo le menomazioni fisiche è sempre stata un punto di orgoglio, fra i soldati anche la psiche cerca subito una soluzione: “Per uscire dall’idea di morte, bisogna ribadire che la vita continua”, dice la psicologa: “Tanti di questi ragazzi hanno deciso che il modo migliore per uscire dalla crisi è lasciare una traccia più duratura possibile. Vogliono mettere al mondo dei figli”.

Giampaolo Cadalanu
La Repubblica
21 aprile 2021

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