La cinica strategia che affama l’Afghanistan


Internazionale


La prima neve cadrà su Kabul da un giorno all’altro, e il tasso di mortalità comincerà a crescere. A morire saranno soprattutto i bambini, ma non sarà il freddo a ucciderli. Quello, al massimo, si limiterà a completare l’opera iniziata mesi o anni fa dalla malnutrizione. All’origine dell’imminente tragedia c’è un altro tipo di congelamento. […]


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La prima neve cadrà su Kabul da un giorno all’altro, e il tasso di mortalità comincerà a crescere. A morire saranno soprattutto i bambini, ma non sarà il freddo a ucciderli. Quello, al massimo, si limiterà a completare l’opera iniziata mesi o anni fa dalla malnutrizione. All’origine dell’imminente tragedia c’è un altro tipo di congelamento.

La maggior parte delle carestie è il risultato diretto, e a volte deliberato, di una guerra, come l’attuale blocco del Tigrai da parte dei regimi di Etiopia ed Eritrea o il blocco dello Yemen da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati regionali e occidentali. In Afghanistan, invece, è stata la fine di una guerra a provocare la fame.

Durante gli ultimi due anni dell’occupazione statunitense il paese è stato colpito dalla siccità, quindi i più poveri erano già vulnerabili prima degli eventi della scorsa estate (sono sempre i poveri a soffrire la fame quando il cibo scarseggia e i prezzi salgono). Ma ad aver peggiorato questa situazione è stato il caos provocato dal ritiro dei soldati americani ad agosto.

Mentre sugli schermi degli americani scorrevano le immagini caotiche e cresceva il senso di umiliazione, l’amministrazione Biden ha messo in chiaro un aspetto cruciale. “Qualsiasi risorsa che il governo afgano possieda nelle banche statunitensi non sarà messa a disposizione dei taliban”, ha dichiarato un funzionario il 15 agosto. A quel punto la carestia è diventata inevitabile.

Il fatto che il governo americano e le istituzioni dominate dagli Stati Uniti, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, abbiano smesso di inviare aiuti all’Afghanistan dopo la conquista del potere da parte dei taliban è comprensibile. La fine degli aiuti ha rappresentato un grande problema per il nuovo regime – perché i finanziamenti dall’estero coprivano i tre quarti della spesa pubblica – ma di sicuro non è stata una sorpresa.

Diverso è il caso del congelamento di tutto il denaro afgano depositato nelle banche americane e occidentali (9,5 miliardi di dollari soltanto negli Stati Uniti). Si tratta soprattutto di aiuti che il precedente regime non aveva ancora speso, o che aveva fatto sparire. È comunque denaro afgano e appartiene al nuovo governo del paese, ovvero ai taliban.

Questo è il congelamento che avrà le conseguenze più disastrose. L’economia interna afgana è sostanzialmente collassata, ma in quei conti congelati c’è denaro a sufficienza per importare prodotti alimentari e permettere ai 40 milioni di afgani di superare l’inverno senza che ci siano troppe vittime per la fame. Ma allora perché il governo di Washington non sblocca questo denaro?

I cinici suggeriscono che gli Stati Uniti non perdonano mai i paesi e i governi che hanno osato sfidarli (e batterli). L’esempio perfetto è Cuba, dove l’embargo commerciale dura da sessant’anni. Ma il cinismo è maligno. Dovremmo accettare la giustificazione dei paesi che trattengono il denaro afgano per come ci viene offerta.

Biden evita di parlare della vicenda, ma il mese scorso il portavoce del dipartimento di stato Ned Price ha dichiarato che i fondi fanno parte della strategia del “bastone e la carota” che gli Stati Uniti utilizzano per influenzare il comportamento dei taliban.

Un altro funzionario dell’amministrazione ha sottolineato che “sbloccare le riserve di denaro non garantisce che i taliban le utilizzeranno per risolvere i problemi dell’Afghanistan”. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha spiegato che “non possiamo firmare un assegno in bianco alle autorità taliban. Dobbiamo fare in modo che il paese non torni a essere un narco-stato e un paradiso per i terroristi”.

Chi credono di essere queste persone? Il denaro appartiene all’Afghanistan, e alcuni afgani stanno già morendo di fame. Che diritto hanno queste persone di trattenere il denaro fino a quando il paese non dimostrerà di non essere “un rifugio per i terroristi”? Come possono i taliban dimostrare che non lo diventeranno? Quanto tempo ci vorrà? Fino al primo milione di morti di fame? Fino al secondo?

Probabilmente ci sono persone al dipartimento di stato (e sicuramente all’interno dei servizi americani) abbastanza convinte che i taliban non siano mai stati coinvolti in alcun attacco portato su suolo statunitense.

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Washington ha sostenuto per vent’anni che i taliban conoscessero i piani di Osama bin Laden per gli attacchi dell’11 settembre, ma non è mai stata portata alcuna prova a sostegno di questa tesi, che tra l’altro non ha molto senso. Bin Laden, infatti, non ha preparato l’attacco su suolo afgano, e informare i taliban in anticipo avrebbe messo in pericolo la riuscita del piano.

Questa narrativa ha servito gli scopi degli Stati Uniti in passato e continua a farlo anche oggi, soltanto che l’obiettivo attuale è semplicemente quello di punire i taliban per aver vinto la guerra. È un comportamento ignobile, ma le grandi potenze agiscono spesso come bambini vendicativi, soprattutto quando non ne pagano le conseguenze.

“Il denaro appartiene alla nazione afgana. Consegnateci i nostri soldi”, ha dichiarato la settimana scorsa il portavoce del ministero delle finanze Ahmad Wali Haqmal. “Congelare questi fondi non è etico e va contro tutte le leggi e i valori internazionali”. Ma il denaro resterà bloccato. E presto sull’Afghanistan calerà l’inverno.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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