Kabul, città assediata dalla paura che vuole riprendersi il futuro


Francesca Caferri


Obama apre al dialogo con i Taliban moderati, Karzai vuole coinvolgere i capi tribù nella tutela dell’ordine. Ma tra gli alleati emergono segnali di malcontento: "Abbiamo fatto tanto per disarmarli, ora non torniamo indietro".


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Kabul, città assediata dalla paura che vuole riprendersi il futuro

KABUL – Lo sguardo di Osama Bin Laden si posa fisso sul visitatore e non lo lascia mai. Accanto a lui il suo vice Ayman al Zawahiri e il leader dei Taliban afgani, Mullah Omar: una scritta in dari e pashto promette ricompense a chi darà notizie di loro. Nelle strade di Kabul nessuno sembra curarsene troppo. A sette anni dall'inizio dell'operazione militare che avrebbe dovuto catturarlo o ucciderlo, in Afghanistan il leader di Al Qaeda è un ricordo sbiadito, che prende vita solo sui cartelloni agli angoli delle strade. Altre preoccupazioni occupano gli afgani: le tante guardie straniere dal grilletto facile che presidiano Kabul, per esempio. O la ricerca di un lavoro che permetta di uscire dalla morsa della povertà.

Non è un Paese felice l'Afghanistan del 2009: le speranze dell'inverno 2001/2002, quando i Taliban si dissolsero sotto la pressione delle forze internazionali, sembrano svanite. Chi ancora vi si aggrappa, lo fa con la tenacia e la forza che arrivano da esperienze peggiori. Come Sora, 18 anni, ex studentessa clandestina ed ex profuga, oggi allieva in una delle migliori scuole di Kabul: "Perché voi occidentali con una mano ci aiutate e con l'altra uccidete? Perché date alle ragazze la possibilità di studiare e poi tirate bombe sui nostri villaggi?", chiede. E ancora: "Obama farà davvero qualcosa per il mio Paese?".

Gli interrogativi di questa ragazzina sono gli stessi che girano nelle strade di Kabul. Dopo tanti anni di presenza straniera, l'Afghanistan resta un Paese in bilico. Il 2008 è stato l'anno più insanguinato dalla fine della guerra: 2.218 civili sono morti, contro i 1.523 del 2007. La presenza dei Taliban ormai è tangibile ovunque, e intere province, soprattutto al sud, sono fuori controllo. I segni di progresso che fanno capolino qua e là – l'aumento delle scuole e degli ospedali, il ritorno dell'elettricità in città, la presenza di più strade asfaltate, il crescente numero di ragazzine che hanno accesso all'istruzione, la diminuzione della produzione di oppio – scompaiono nel mare dei problemi: povertà, presenza di tante truppe internazionali, aumento delle vittime civili. E, primo fra tutti, l'insicurezza diffusa, resa evidente dagli attentati che poco tempo fa hanno colpito nei pressi del palazzo presidenziale di Hamid Karzai.

"Non siamo dove volevamo essere, avremmo potuto fare meglio – ammette nella sua residenza l'ambasciatore americano William Wood – ma bisogna capire che l'impegno sarà di lunga durata". Parole che ricalcano quelle di Barack Obama: sin dalla campagna elettorale, il neo-presidente ha promesso di fare di questo Paese una priorità e le sue prime settimane alla Casa Bianca sembrano confermarlo. Pochi giorni fa Obama ha aperto al dialogo con i settori più moderati dei Taliban. All'inizio di aprile, al vertice Nato di Strasburgo, chiederà agli alleati di fare di più. E nel giro di qualche settimana arriveranno nel Paese i 17mila nuovi soldati che ha deciso di mandare. Una scommessa azzardata: in Afghanistan, la percentuale di quelli che vedono nelle truppe straniere un problema, più che un aiuto, è in aumento.

Amin Noureddine, insegnante, incarna perfettamente l'umore di tanti afgani. "È tempo che gli stranieri se ne vadano – dice – hanno fatto molto, ma ora spetta a noi provare. Così non va". Come tutti quelli che abbiamo incontrato, non ha dubbi quando racconta che negli ultimi due anni l'insicurezza è aumentata: "Ci sono più attentati". Almoz, un suo studente, annuisce. Ogni giorno viene a scuola in autobus: ogni giorno teme un attentato. Il ragazzo conosce bene i Taliban, per averli visti nascere nell'Helmand: "Non torneranno al potere. Ma possono rendere la nostra vita un inferno".
Per provare a fermare l'ascesa degli ex studenti di religione, il ministero dell'Interno di Kabul e il governo statunitense si preparano a lanciare un nuovo progetto, le "forze di protezione pubblica". Gruppi di uomini di ogni distretto verranno reclutati e stipendiati dagli americani per controllare il territorio. L'idea ricorda quella dei "figli dell'Iraq" – le milizie di ex combattenti sunniti il cui appoggio agli Usa è stato decisivo per invertire il corso della guerra a Bagdad – ed è contestata da molti degli alleati Nato: "Abbiamo fatto tanto per togliere le armi alle milizie – dice un diplomatico europeo – e ora rischiamo di legittimarle di nuovo".

La provincia di Wardak, da dove partirà l'esperimento, è un microcosmo perfetto per capire le sfide e i rischi del progetto: la strada che la collega a Kabul – che dista solo 25 chilometri – è diventata così pericolosa negli ultimi due anni che nessuno straniero osa percorrerla in auto per timore di essere sequestrato. Gli afgani lo fanno solo se costretti. La povertà resta molto diffusa: nei giorni scorsi, quando la Nato ha distribuito cibo, donne e ragazzini in ciabatte di plastica hanno lottato fra la neve per afferrare un sacco di farina e riso. E questo spiega perché lo stipendio di 300 dollari al mese offerto dai Taliban per molti è difficile da rifiutare.

"I cento dollari mensili di un agente non sono paragonabili a quello che danno loro – ammette Noorul Haq, ufficiale della polizia afgana – ma noi e l'esercito siamo l'unica forza nazionale che questo Paese abbia visto in anni. E tornare a dare le armi alle tribù rischia di farci precipitare di nuovo nella violenza". Raro esempio di consapevolezza, quello dell'ufficiale Haq. Molte fra le reclute che addestra sono molto più realistiche: "Sappiamo quali sono i nostri limiti, dove inizia il territorio dei Taliban – dice un giovane agente – Di solito dista solo pochi chilometri dalle nostre caserme".

Nella sfida per il controllo del territorio il governo non è di grande aiuto: la popolarità di Hamid Karzai è in declino costante, il suo esecutivo è sommerso dalle accuse di corruzione e lo scarso feeling fra il presidente afgano e la nuova amministrazione americana non aiuta. Le elezioni si terranno ad agosto. Per cercare di uscire dal pantano, Karzai continua a offrire un ramoscello di ulivo ai Taliban che accetteranno di rinunciare alla violenza. Ma finora il suo appello, ripetuto anche due giorni fa, non ha avuto risposta. "Non accetteremo di tornare indietro ai tempi dei Taliban", dice Sora. Ma né lei, né gli stranieri a cui si rivolge sanno come salvare un Paese che sembra di nuovo sull'orlo del caos.

dall'inviata FRANCESCA CAFERRI

Fonte: Repubblica.it

10 marzo 2009

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