Decreto immigrazione, dubbi di costituzionalità


amelia rossi


Su Libertà e giustizia l’analisi di Zagrebelsky, Settis, Carlassare: “Nel testo aberrazioni giuridiche”. Ilfattoquotidiano.it ha interpellato Antonio D’Andrea, professore ordinario all’Università degli Studi di Brescia, che spiega i punti del decreto ritenuti più dibattuti: “Revoca della cittadinanza? La Costituzione non ammette alcun regime speciale, nessuna ghettizzazione”


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BERLIN, GERMANY - OCTOBER 21: A man holds a form while like other migrants seeking refugee status wait to register outside the Central Registration Office for Asylum Seekers (Zentrale Aufnahmestelle fuer Asylbewerber, or ZAA) of the State Office for Health and Social Services (Landesamt fuer Gesundheit und Soziales, or LAGeSo) on October 21, 2015 in Berlin, Germany. Berlin recently expanded its registration system for asylum-applicants with a second center. Once initially registered at LAGeSO, applicants are taken by bus to the new center where they can apply for refugee status and receive job counseling all within the same day in a process that was previously more arduous. The city is struggling to process large numbers of applicants who often wait for days on end outside the main LAGeSO building in conditions that have prompted protests by volunteer aid groups.  (Photo by Carsten Koall/Getty Images)

La revoca della cittadinanza, la sospensione della domanda di protezione, i rimpatri, l’abrogazione della protezione umanitaria, ma anche i presupposti del decreto legge. Sono alcuni dei punti contenuti nel dl immigrazione, approvato dal Consiglio dei Ministri e presentato in conferenza stampa da Matteo Salvini e Giuseppe Conte, che non convincono i costituzionalisti.

In dieci tra i quali Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare, Salvatore Settis e Paul Ginsborg, hanno firmato una nota pubblicata da Libertà e Giustizia in cui spiegano che “tra le molteplici aberrazioni giuridiche, colpisce in particolare quella che prevede la revoca della cittadinanza come sanzione per la commissione di determinati reati. Discriminare all’interno della cittadinanza significa creare un ordinamento separato sulla base dell’appartenenza etnica. D’ora innanzi, alcuni saranno cittadini; gli altri sudditi“. 

Ilfattoquotidiano.it ha interpellato il costituzionalista Antonio D’Andrea, professore ordinario all’Università degli Studi di Brescia, che condivide le preoccupazioni dei colleghi, sottolineando i punti del decreto che ritiene più controversi.

Revoca della cittadinanza
Nell’articolo 14 del decreto si legge che “la cittadinanza italiana […] è revocata in caso di condanna definitiva per reati” commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, compresi concorso, favoreggiamento e finanziamento di tali reati. In altre parole, una persona che ha acquisito la cittadinanza italiana, che non è quindi cittadino dalla nascita, può vedersela revocata nel caso di sentenze definitive di colpevolezza per reati gravi. Ma una condanna penale non può portare a provvedimenti del genere: “Ma come si fa a proporre un provvedimento del genere? – domanda D’Andrea – È impensabile che una persona che ha ottenuto la cittadinanza italiana e ha, quindi, gli stessi diritti e doveri di chi, come noi, è italiano per nascita, possa vedersi revocare tale diritto. Se è un provvedimento inapplicabile per noi lo deve essere per tutti i cittadini. La Costituzione non ammette alcun regime speciale, nessuna ghettizzazione“.

Nel caso in cui, invece, il soggetto in questione abbia avviato le procedure per diventare un cittadino italiano, lo Stato ha il diritto, in caso di una condanna del genere, di respingere la domanda. “È una salvaguardia legittima della sicurezza nazionale”, spiega il costituzionalista.

Sospensione della domanda di protezione internazionale e rimpatrio
L’articolo 10 prevede che per i richiedenti con procedimento penale in corso “per uno dei reati che in caso di condanna definitiva comporterebbero diniego della protezione internazionale” venga disposta “la sospensione dell’esame della domanda di protezione e l’obbligo di lasciare il territorio nazionale“. Solo in caso di assoluzione con sentenza definitiva, la persona potrà chiedere la riapertura della domanda di protezione internazionale entro dodici mesi. In caso contrario, “la Commissione competente dichiara l’estinzione del procedimento”.

“Dal punto di vista costituzionale – spiega D’Andrea – l’avvio di un procedimento penale non può portare all’allontanamento dal territorio nazionale di un soggetto che richiede protezione. Per due motivi: primo, perché non stiamo parlando di una persona condannata in via definitiva e, secondo, perché la sua eventuale colpevolezza non può inficiare la richiesta di protezione. In parole povere: se questa persona si è macchiata di un reato anche grave, questo non è legato al fatto che abbia effettivo bisogno di protezione internazionale. Non siamo noi, come Stato, che possiamo decidere di metterlo nelle mani di coloro che potrebbero attentare alla sua sicurezza, anche perché l’ottenimento della protezione è legato a convenzioni internazionali che non possono essere limitate da provvedimenti nazionali. È una forzatura costituzionale: il rapporto tra causa e provvedimento è sproporzionato”. In questo modo, precisa D’Andrea, una persona potrebbe essere rimpatriata solo a seguito di una denuncia, anche anonima, perché in questo caso l’autorità giudiziaria inquirente ha l’obbligo di avviare un’azione penale: “È impensabile perché in questo Paese il diritto alla difesa è garantito e il decreto apre alla possibilità di un uso strumentale della denuncia”.

Presupposti del decreto legge: sussistono davvero le condizioni di necessità e urgenza?
Nell’articolo 77 della Costituzione si legge che “il Governo non può, senza delegazione delle Camere [cfr. art. 76], emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria”, tranne “in casi straordinari di necessità e di urgenza“. E nel testo del governo, in effetti, viene più volte ripetuto che il decreto è giustificato da una situazione di necessità e urgenza. Aspetto, però, che non combacia con le dichiarazioni dello stesso ministro dell’Interno che, più volte negli ultimi mesi, ha ripetuto che gli sbarchi di immigrati hanno subito un calo dell’80% rispetto all’anno precedente. “Le dichiarazioni di Salvini creano certamente una stortura e un cortocircuito – dice D’Andrea – La Corte Costituzionale riceverà sicuramente dei dubbi su questo aspetto che dovrà analizzare. Potrebbero mancare i presupposti che giustificano l’utilizzo di un decreto legge che provocherebbero l’annullamento da parte dei giudici. Si tratterebbe di un vizio di forma che non può essere sanato nemmeno dalla conversione in legge da parte del Parlamento, visto che il procedimento legislativo seguito non rispetterebbe la Costituzione”.

Esecuzione dell’espulsione: giusto mandare le persone in strutture diverse da quelle predisposte?
L’articolo 4 prevede che, nel caso in cui non vi sia disponibilità di posti nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) o in quelli nel circondario del Tribunale competente, “il Giudice di Pace, su richiesta del Questore […] può autorizzare la temporanea permanenza dello straniero, sino alla definizione del procedimento di convalida in strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza”. Questa disposizione, spiega D’Andrea, non è di per sé incostituzionale, visto che un giudicepuò autorizzare provvedimenti del genere. “Il problema – continua – è che non si capisce in che tipo di centri ‘idonei’ saranno ospitati questi soggetti. Si tratta di persone ‘in attesa del procedimento di convalida’, come si legge nel testo, e quindi escludo che possano essere trattenute per mesi in strutture considerabili come centri di detenzione. Inoltre, deve essere anche valutata la loro ubicazione sul territorio nazionale: se il giudizio sul provvedimento relativo all’espulsione viene esaminato, ad esempio, a Catania, spostare il soggetto a Bolzano potrebbe essere considerato una limitazione della libertà della persona di poter seguire il proprio procedimento”.

Nessun permesso di soggiorno per lavoro a chi gode della “protezione per calamità”
Il decreto legge introduce anche il cosiddetto “permesso di soggiorno per calamità“, spiegando che si tratta della possibilità per lo straniero richiedente protezione internazionale di rimanere in Italia per sei mesi nel caso in cui “il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità”. Il testo continua spiegando che, in questo arco di tempo, il soggetto può svolgere attività lavorativa, ma il permesso per calamità “non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro“. Tradotto: se questa persona trova un lavoro regolare, pagando quindi tasse e contributi, non potrà continuare a svolgerlo dopo la scadenza del permesso. “Una legge irrazionale non è mai conforme alla Costituzione – spiega D’Andrea – L’idea che un soggetto si trovi sul territorio nazionale legalmente, che riesca a trovare lavoro e che, nonostante questo, se ne debba andare dopo sei mesi è decisamente irrazionale e, a mio parere, incostituzionale”.

Abrogazione della protezione umanitaria
L’ultimo aspetto su cui D’Andrea solleva dei dubbi di costituzionalità è lo stop alla protezione umanitaria per coloro che già ne godono nel Paese. Se i nuovi arrivati dovranno adeguarsi alle nuove e più stringenti disposizioni del governo, per coloro che già godono di questo particolare tipo di protezione internazionale la situazione è diversa. Il provvedimento non è retroattivo, quindi non stravolgerà decisioni già prese in passato, ma nel testo si legge che “i titolari di protezione umanitaria presenti nel Sistema di protezione […]  rimangono in accoglienza fino alla scadenza del periodo temporale previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento del medesimo Sistema di protezione e comunque non oltre la scadenza del progetto di accoglienza”. Questo vuol dire che la protezione umanitaria, al momento della scadenza (generalmente viene riconosciuta per un periodo variabile da sei mesi a due anni, ndr), non sarà rinnovata. “Questo particolare aspetto solleva dubbi di costituzionalità – conclude il docente – L’impedimento del rinnovo di un diritto acquisito, nel caso in cui permangano le condizioni che lo hanno reso necessario, rappresenta un affievolimento delle garanzie per lo straniero. Bisogna domandarsi se questo sia compatibile con i dettami costituzionali”.

Ilfattoquotidiano

27 settembre 2018

 

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