Congo: pace di carta


Davide Maggiore - ilmondodiannibale.globalist.it


Nonostante gli accordi di Addis Abeba non si fermano gli scontri nel Kivu. Dietro la spaccatura nel campo ribelle c’è l’ombra del Rwanda.


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È durata meno di una settimana la pace in Kivu. L’accordo di Addis Abeba, firmato domenica da 11 Paesi dell’area, è rimasto lettera morta nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo, dove l’esercito regolare ha continuato a scontrarsi con varie milizie ribelli; gli ultimi combattimenti, giovedì 28 febbraio, hanno provocato 36 vittime, 10 delle quali civili.

Sono invece migliaia le persone in fuga dalle località di Rutshuru e Bunagana, dove ad affrontarsi sono addirittura due fazioni dello stesso gruppo, quell’ M23 che negli scorsi mesi aveva brevemente occupato il capoluogo del Nord Kivu, Goma. Già in occasione delle trattative per il ritiro dalla città conquistata si erano potute notare le divergenze tra due diverse ‘anime’ del movimento, incarnate dal capo militare Sultani Makenga e dal leader dell’ala politica, Jean Marie Runiga Lugerero; in quel momento erano sembrate funzionali a una strategia, un gioco delle parti mirato a ottenere più benefici possibili.

Su quello sfondo oggi si profila invece una vera e propria lotta di potere: il ‘politico’ Lugerero (autoproclamato vescovo di una setta ‘evangelical’) è infatti stato dichiarato decaduto dagli uomini di Makenga, con l’accusa di sostenere il generale Bosco Ntaganda. Ricercato dalla Corte penale internazionale, Ntaganda è stato – prima di darsi alla macchia – il più noto tra i leader di M23; sarebbero appunto i suoi uomini ad aver reagito al tentativo fatto da Makenga di catturare Lugerero, che, a sua volta, ha fatto perdere le sue tracce.

Lo scontro tra le due fazioni non ha però solo ripercussioni locali. Anzi, la concomitanza con la firma degli accordi di Addis Abeba fa nascere più di un sospetto. In effetti Ntaganda, di etnia tutsi e nato in Rwanda, prima di combattere in Congo (prestando alternativamente servizio tra le file dei ribelli e tra i ranghi dell’esercito governativo) aveva partecipato alla guerra civile rwandese, agli ordini di Paul Kagame. Cioè dell’attuale presidente rwandese, accusato dall’Onu – con il suo omologo ugandese Yoweri Museveni – di foraggiare da anni vari movimenti di guerriglia nel Kivu, compreso M23. Accuse negate da entrambi i governi.

Uno degli impegni assunti dai firmatari del patto di Addis Abeba (compresi Rwanda e Uganda) era appunto di non sostenere milizie sul territorio congolese: il sospetto è che però Kagame, sotto l’apparenza di uno scontro interno al campo ribelle stia, come in passato, servendosi di Ntaganda per mantenere una ‘testa di ponte’ nel Kivu. Questo gli permetterebbe di non allentare la presa né sui minerali di cui è ricco il sottosuolo della regione – e che già transitano di contrabbando in territorio rwandese – né sulle terre fertili di cui il Kivu è ricco e che invece costituiscono per il Rwanda sovrappopolato un problema storico.

Rischiano dunque di servire a poco gli sforzi internazionali, anche se sottolineati da cerimonie solenni (ad Addis Abeba era presente il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon in persona); anche la costituzione di una forza di intervento rapida di 2500 soldati a fianco di quella che già è la missione Onu più numerosa nel mondo (17 mila uomini) potrebbe non essere risolutiva, se non si interverrà sui giochi di potere che coinvolgono la triade Uganda – Rwanda – Congo.

Quest’ultimo, in particolare, resta esposto – oltre che alle mire dei vicini – ai disordini interni che colpiscono anche il Katanga (a sud) e il Maniema (regione a ovest del Kivu). Un segnale della mancanza di compattezza di una compagine statale che dopo la fine ufficiale dell’ultima guerra aperta combattuta sul suo territorio (1998-2003) non ha mai ritrovato unità, malgrado le ultime due elezioni abbiano confermato al potere il presidente Joseph Kabila. Le accuse di brogli che in entrambe le occasioni gli sono state mosse dall’opposizione minano però la sua capacità di iniziare un dialogo. Condizione imprescindibile perché una vera ricostruzione del Paese possa iniziare senza dover continuamente temere il riesplodere di nuovi conflitti.

Fonte: http://ilmondodiannibale.globalist.it

2 marzo 2013

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