Aldo Capitini… poeta


Patrizia Sargentini


La scrittrice Patrizia Sargentini racconta gli aspetti poetici e creativi del filosofo del pensiero nonviolento. "Avvicinare la poesia di Aldo Capitini significa risalire alle origini della sua formazione e della sua produzione creativa che furono soprattutto letterarie, dalla fanciullezza agli studi universitari…". Con questo scritto si desidera fare anche la presentazione del saggio P. Sargentini, Aldo Capitini poeta, con antologia delle liriche di Aldo Capitini, Guerra Edizioni, Perugia, 2003 e articolo in corso di pubblicazione nella rivista di poesia “Attraverso”, num. monografico su Aldo Capitini, rivista trimestrale di poesia, anno III, num.1, in distribuzione in tutte le librerie umbre.


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Aldo Capitini... poeta

Avvicinare la poesia di Aldo Capitini significa risalire alle origini della sua formazione e della sua produzione creativa  che furono soprattutto letterarie, dalla fanciullezza agli studi universitari, con la tesi di laurea in Lettere del 10 novembre 1928 alla Scuola Normale di Pisa, dal titolo Realismo e serenità in alcuni poeti italiani (Iacopone, Dante, Poliziano, Foscolo, Leopardi), e con la tesi di perfezionamento in Letteratura italiana, dell’anno successivo e dedicata alla Formazione dei Canti del Leopardi . Il 1933 fu invece l’anno a partire dal quale l’aperto dissenso ed impegno antifascista lo chiameranno agli studi ed alla riflessione filosofica meglio adeguati alla definizione delle giustificazioni pratico-morali della sua “antitesi” al fascismo e alla costruzione libero-religiosa.

Avvicinare la poesia di Aldo Capitini è però molto di più, se nell’Introduzione del Nostro a quella fondamentale opera prima del suo pensiero che è Elementi di un’esperienza religiosa del 1937, introduzione alla seconda edizione uscita nel 1947 ancora per i tipi Laterza, lo stesso filosofo e libero-religioso perugino chiarisce di essersi proposto non un’opera polemica contro il fascismo, ma capace di “valere fuori della lotta antifascista”, di “portare l’animo su di un piano tutto diverso e parlargli intimamente, come una poesia, prima che come un’esortazione”, con un’efficacia e una forza di persuasione, quali i Canti del Leopardi ed i Promessi Sposi del Manzoni hanno avuto nel Risorgimento, vere battaglie perdute per i tiranni.
Nel paragrafo degli stessi Elementi, dal titolo La crisi dell’individualismo, Capitini cita Scipio Slataper (1888-1915) -senza ricordarne lo scritto, antecedente comunque la Prima Guerra mondiale-:
“Tutta l’età nostra deve, contro sua voglia, ritornare ad un valore religioso (amore) più alto che l’etico (volontà) dalla cui assoluta affermazione era partita”. E Capitini commenta: “L’eticità più assoluta guadagna dall’accendersi di un soffio religioso; la legge morale, non perdendo nulla del suo comando, deve suscitare amore e farsi slancio limpido; dobbiamo essere musica e non statua. Questo sembra un sogno, un qualcosa di poetico, e credo invece che sia prova di realismo. Vi sono forze potenti da fronteggiare, e solo un’opposizione appassionata può vincerle: un’opposizione che matura come un capolavoro di poesia…Oggi c’è bisogno di molto. …Bisogna fronteggiare tante tentazioni individualistiche e materialistiche con un qualcosa di potente e porre perciò all’universale etico…, alla religiosità generica, un centro religioso”.

Ancora, nel suo Saggio sul soggetto della storia, pubblicato da Capitini nel 1947 con La Nuova Italia, risulta chiaro come per il Nostro il soggetto della storia non sia l’uomo in universale, ma l’uomo particolare, il tu che opera nella continua tensione di apertura agli altri, a tutti gli altri: “il soggetto è l’Uno-tutti, l’infinita coralità della presenza di tutti”, unita “…nel creare i valori” , in altre parole, l’umanità nella sua condizione e destinazione ideale, quella di superare tutte le conflittualità e contraddizioni.
Nella posizione romantica il soggetto viveva individualmente il dramma del superamento del limite, del contrasto tra finito ed infinito, e non -come è invece in Aldo Capitini- come esperienza collettiva di “apertura” all’alterità, di “aggiunta” disinteressata della propria iniziativa per la trasformazione comune della realtà nei valori del bello, del vero, del buono e del giusto  .
Nel capitolo Poesia e religione dello stesso Saggio sul soggetto della storia, Aldo Capitini chiarisce come una società in cui la cultura sia diffusa, sviluppatissima e capace delle applicazioni tecniche più avanzate, potrebbe forse superare l’individualismo, ma non per questo si potrebbe dire in grado di avvicinare gli uomini alla loro destinazione ideale.
Questo è l’ufficio della poesia, dell’arte in genere, della musica. La poesia è per eccellenza liberazione. La poesia è nella cultura il lievito continuo perché l’elaborazione intellettuale non si stacchi dall’animo, non si faccia impersonale, tecnica ed infine, dogma, istituzione, praticità produttivamente intesa. Nella poesia l’uomo vuole muovere da sé, con le proprie forze ed il proprio tono e raggiungere l’universale. Ecco allora che la religione tende a fare, della poesia, vita, tende ad esprimersi nella poesia di tutti. Per evitare che la società si chiuda nella sua amministratività, è necessario colmare il distacco tra socialità e persone e l’ufficio dell’arte è di tenere vivo, nella cultura, questo senso di individualità e compresenza.
Cultura, poesia e religione costituiscono dunque spazi di libertà per la liberazione dal male e dall’insufficienza nella dimensione della compresenza di tutti, morti e viventi, uomini ed esseri naturali.
Nel suo maturo saggio Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, pubblicato a Pisa per i tipi della Nistri-Lischi nel 1953, quando buona parte del suo pensiero e dell’opera poetica avevano visto la luce, Capitini scrive nella sua critica allo storicismo: “Per lo storicismo l’uomo è mortale”. Ed aggiunge: “Per il Croce non c’è altro conoscere che quello storico, che è delle opere, cioè dell’individuo agente, cioè attuante valori. Ciò che chiamiamo intimità della coscienza è [però] conoscibile in una forma non logica, quella della poesia”.
E ne L’atto religioso ai singoli individui dello stesso capitolo Lo Storicismo assoluto de Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Aldo Capitini scrive che l’atto religioso di amore verso i singoli individui non si presenta come conoscere quegli individui (“non giudicate”), ma come movimento di interesse per ciò che uno è, e insieme come apertura a ciò che uno può essere (“il perdono”), cioè fiducia che quell’essere non si esaurisca in ciò che risulta dalle sue opere.
È particolarmente la poesia che ci fa avvertire il fondo umano della nostra socialità, l’intimità, dando il riferimento a ciò che ci accomuna al di là degli antagonismi della molteplicità, delle differenze naturali, culturali e socio-economiche. Il valore, nella poesia, ha un carattere corale.

Nella stessa opera Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Capitini faceva notare all’interno del capitolo intitolato L’atto del bello (dedicato -come è facile comprendere- al ruolo della forma artistica e dell’artista in quanto maestro  che deve vegliare a far sì che l’umanità non si fermi e che non retroceda) come nell’ultima parte della produzione di alcuni grandi interpreti del mondo artistico, quali qui Dante, Petrarca e Leopardi, oltre a Wagner ed Euripide, ma aggiungerei anche gli altri studiati per la sua tesi di laurea, la forma acquisti un colorito religiosizzante, un fare liturgico, iniziatore.

Il filosofo-poeta e profeta di una realtà aperta e liberata, Aldo Capitini, afferma dunque: “Si muovano pure contenuti e genti per il potere: è il moto della storia. Il nostro lavoro” deve far sì che “la forma artistica non rappresenti dei contenuti in mezzo ad una realtà che rimane quello che è”, ma sia la premessa o, meglio, l’inizio di una realtà liberata, (fatto, questo, giudicato dall’autore come nuovo), così che l’umanità riesca a collocarsi in quel punto discriminante di passaggio nel quale si distingue ciò che va col passato, verso chiusure, e ciò che si apre ad un futuro di compartecipazione, compresenza, liberazione e festa .

Sul piano squisitamente creativo, l’itinerario poetico di Capitini è tracciato attraverso le opere liriche giovanili ed ancora piuttosto imitative di modelli pascoliani, dannunziani e leopardiani Terrena sede (1928)  e Sette canti (1931) , per giungere alla più ricca e contenutisticamente matura Atti della presenza aperta (1943) . A questa raccolta segue Colloquio corale  , che traccia un excursus epico-morale della storia dell’umanità, nelle difficoltà ed impasse di alcuni suoi maggiori rappresentanti, oltre che di certe fasi storiche, ma che soprattutto sottolinea la costante tensione all’apertura, all’aggiunta dell’io ai tutti, perché i limiti dell’“egoità” siano superati nella realtà liberata.
L’opera, insignita nello stesso 1956 con il Premio Salento, rappresenta una sorta di lauda drammatica per la celebrazione della composizione delle esperienze di tutti nella verità morale e così – come una rappresentazione recitata e musicata – l’aveva pensata già prima della pubblicazione lo stesso Capitini, secondo quanto emerge da significative carte inedite custodite presso l’Archivio di Stato .
L’itinerario poetico capitiniano tutto, pur nel progressivo raffinamento dei mezzi espressivi, è comunque rappresentativo di una poesia civile, eticamente impegnata ed espressiva di un’intima coralità.
Colloquio corale del 1956 si propone in ogni caso come l’ultima e più compiuta opera poetica del Nostro, sia nella resa dei contenuti, che negli esiti formali, personale ed originalissimo risultato di un itinerario di pensiero nutrito di numerose ascendenze poetico-religiose -da San Francesco a Jacopone da Todi, ai “vociani” Boine, Jahier, Slataper, Rebora-, ma anche del messaggio di Carlo Michelstaedter , dell’ultimo Leopardi, del Manzoni degli Inni Sacri e dei Promessi Sposi, oltre che delle strutture della tragedia greca e della lauda drammatica umbra. In Colloquio corale la trasformazione personale del poeta e quella dell’umanità tutta collaborante con la natura è compiuta e la metanoia del singolo scaturisce in una vera escatologia, nella quale si realizza la compresenza in atto:
 “Viene ora la sera, e tu che ci hai unito, rimani con noi, o festa gentile” (Colloquio corale, Epilogo).
Nella festa si sperimenta finalmente un modus vivendi anticipatore di una realtà redenta, capace di riassumere le diversità in unità: “Abbiamo parlato e ascoltato, e visto ricomporsi sempre la pace e la luce” (Colloquio corale, Epilogo).

La festa è dunque la grande allusione, che ci conduce ad un ritorno allo stato natale , al ritrovamento di sentimenti espansivi e gioiosi, è la celebrazione dell’ingresso, per l’individuo, nella compresenza, una sorta di nuovo stato natale che ogni giorno si può e si deve celebrare.

La produzione poetica di Capitini -ritenuta a torto marginale nel panorama degli scritti dell’autore- deve essere al contrario considerata essenziale per penetrare la “tensione” dell’animo del poeta-filosofo per gli esseri tutti ed il loro intimo, oltre che per comprendere  la  sua “persuasa” fiducia in una realtà in cui si possa essere “tutti insieme” e più capaci di intuizioni, confronto, ragionevolezza e volontà di positiva trasformazione dell’esistente. Interessante è notare, d’altra parte, che ciò ci è detto da Capitini stesso nella propria autobiografia, ultimata a soli due mesi dalla morte nel 19 agosto 1968, alla conclusione, cioè del complesso e ricco itinerario del proprio impegno intellettuale, libero-religioso e civile-nonviolento. “Se dovessi indicare i punti dove ho espresso la tensione fondamentale, da cui tutte le altre, del mio animo per l’interesse inesauribile agli esseri e al loro animo, e perché ad essi sia apprestata una realtà in cui siano tutti più insieme e tutti più liberati, segnalerei alcune righe di un mio libro poetico, Colloquio corale (sulla festa), nel quale ho ripreso accentuando la compresenza, un modo di esprimermi lirico, già presentato negli Atti della presenza aperta. …

“La mia nascita è quando dico un tu.
Mentre aspetto, l’animo già tende.
Andando verso un tu, ho pensato gli universi.
Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso alle persone.
La casa è un mezzo ad ospitare.
Amo gli oggetti perché posso offrirli.
Importa meno soffrire da questo infinito.
Rientro dalle solitudini serali ad incontrare occhi viventi.
Prima che tu sorridi, ti ho sorriso.
Sto qui a strappare al mondo le persone avversate.
Ardo perché non si credano solo nei limiti.
Dilagarono le inondazioni, ed io ho portato nel mio intimo i bimbi travolti.
Il giorno sto nelle adunanze, la notte rievoco i singoli.
(…) Torno sempre a credere nell’intimo.
(…)Ringraziando di tutti, mi avvicino infinitamente” .

Momento poetico, nonviolenza e momento politico si saldano in quella che Capitini si propone come una fede senza dogmi, come una religione civile estremamente attuale nella sua proposta di una comunità democratica ricca, non materialmente, ma di energie politiche e morali, nella quale la comunicazione non sia un puro scambio utilitaristico di informazioni, interessanti solo in quanto mercificabili.

Dall’incipit di COLLOQUIO CORALE
CORO

Ci siamo levati nella notte, e il buio era già aperto;
abbiamo guardato oltre le valli, le linee deste dei monti,
e la devozione dell’aria non mossa ancora dagli uccelli.
Verso l’ultima veglia non si è udito il canto del gallo.
Oh il rapido atto dei primi raggi. Scendono le acque liete di servire.

Per tutto ieri abbiamo volto il corpo ad una tensione aperta
pazienti alla mole del lavoro, piegandoci mansueti ad ascoltare.
Dall’oscuro esistere le cose si preparavano ad una simmetria festosa.
Ed alle prime stelle, purissime nel cielo distante,
abbiamo acceso un candelabro nella casa, di fiammelle non timide.

Guardate le siepi questa mattina: quanta gentilezza circonda il loro intrico!
Oh mostrarsi dei sentieri fra i campi, e larghi declivi fino ai rustici pozzi.
Ed ecco dalla curva della strada, procedono in gruppo buoi e vitelli,
e allo scuotersi dei bianchi corpi, rosse strisce dal capo oscillano.
Da cipressi da lauri e mirti, abbiamo posto fronde su tutte le soglie.

I suoni di campane dilagano, più alto delle gradinate delle città,
e nel silenzio d’oro dei vicoli puliti, dove abitarono i nonni.
Dopo giorni di abitudini e di non accorgersi, rispondiamo a una chiamata per noi.
Da villaggi invisibili il vento porta onde di musiche e di trombe,
e da prati di pace, lungo ruscelli costeggiati da pioppi, i cori dei popolani.

Oh festa, svela il tuo essere altro che salva, novità di pace.
Perduti nel sonno e tra i sogni, una tenerezza alludeva al tuo secreto.
Tu puoi soddisfare la parola inesprimibile da individuo a individuo,
tu che sei di là dall’utile; o invisibile nel tuo culmine,
compensa ogni perdita, e la continua pazienza della vita.

Di là dalla triste ingiuria e dal meditar la vendetta,
di là dal travaglio degli errori e dei pentimenti impotenti sui fatti,
di là dalle sere senza colloquio, dalla notte carica di sospetti,
e dal giorno in cui i felici si specchiano nella loro angusta felicità.
Non può essere che esista soltanto, darsi colpi l’uno con l’altro.
  …
C’erano persone liete, bambini accoccolati in gruppi vivaci,
canto che si spandeva da stanze toccate dal sole,
c’era il serio conversare di uomini, il formare progetti
e forze per attuarli, in un mondo di salde strutture,
e tutto lo ha abbandonato come nulla fosse, la vita?
    …
Oh festa, ci siamo posti presso il volto affilato del morente,
vòlto in su il perduto sguardo, vita tutta impallidita:
amare, amare dalla radice, essere con l’atto purissimo di lui,
forza silenziosa, mentre il sole irraggia là fuori inconsapevole.
Tutti, tutti uniti e sempre, oltre lo sguardo ad ogni forma che passa.
   …

 

EPISODIO 

La mia nascita è quando dico un tu.
Mentre aspetto, l’animo già tende.
Andando verso un tu, ho pensato gli universi.
Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso alle persone.
La casa è un mezzo ad ospitare.
Amo gli oggetti perché posso offrirli.
Importa meno soffrire da questo infinito.
Rientro dalle solitudini serali ad incontrare occhi viventi.
Prima che tu sorridi, ti ho sorriso.
Sto qui a strappare al mondo le persone avversate.
Il giorno sto nelle adunanze, la notte rievoco i singoli.
Torno sempre a credere nell’intimo.
Ringraziando di tutti, mi avvicino infinitamente.

Pedanterie e volgarità hanno occupato la vita.
Bellissimi volti dicono insulse parole.
Liberare, liberare, oh lo potessi per tutti.
Chiamo a popolare un mondo liberato, parlo instancabile.
E allora tutti gli esseri, non si chiuderanno più nel quotidiano.
Liberi di vivere, angelici e sereni, come le musiche.
E la realtà imiterà ubbidiente: quando? quando?   

 

INVOCAZIONI 

Oh datemi consolazioni reali, non inventate.
Troppo so distinguere ciò che è dell’immagine, e ciò che è reale.
Reale è un essere che nasce, reale è il dolore il piacere, reale è
la morte.
E non voglio essere causa di dolore a nessuno.
Date parole che siano reali come cose, e più delle cose.
Una realtà che unisca e liberi, da tutto ciò che è dolore.
Perché non congedare anch’io, i limiti quotidiani tra me e me?

La mia infelicità è che evito i sofferenti, gli ospedali, il pensiero delle prigioni.

Resto con voi, ma perdonatemi se mi vedete come un pazzo talvolta.
Ho   bisogno ad un tratto di divario di giuoco, di mescolarmi con i parchi di giostre e di chiasso.

Sosto ad ascoltare i discorsi più semplici e dialettali, delle donne nei mercati
Mi allieto ad udire i passi dei bambini che corrono, le loro grida prepotenti.

 

STORIA 


Chiuso era l’ universo, finché non cominciò la parola tra l’uomo e
Dio, nascosto ad ascoltare e guardare, da dietro il cielo e le cose,
talvolta anche nel muto mistero delle bestie.

Cominciò il canto umano, la dolce fiducia di vincere un’immensa distanza,
aprendo il proprio cuore, in una formata espressione.

Perché questo canto fosse corale, e il conforto posasse in tutti, e
salisse dagli estremi e nascosti angoli, Francesco sulla costa del monte
che era la sua patria, chiamò le creature.

Era forse il banchetto del vangelo, a cui Gesù convocò anche gli
attrappiti e gli scansati.

La persuasiva unità di quel mattino svanì, perché il lupo, la vipera,
il grande leone videro, che gli uomini non erano mutati.

Appassionato Francesco, e tu venisti ad unirti all’intimo piangente.

Gli uomini ripresero ad odiarsi, e ad aspettarsi alla svolta delle strade notturne,
e l’altissimo perdono che tramuta la realtà, era scomparso.

Andiamo per ogni casa, diciamo a tutti di levarsi, per venire alla
realtà liberata, unità amore con le creature, tante ancora nell’ombra.
     …
Perché ancora lo spazio, il tempo, tra l’uomo e la liberazione?
Su, finito è ogni intervallo, non indugiate aspettando segni dal cielo:
ecco la realtà di compresenza infinita, e sorgono atti come musiche;
la festa ha aperto il suo secreto.

Io voglio, voglio guardare fermamente innanzi, più avanti dei tramonti
e delle albe.

EPILOGO

Viene ora la sera, e tu che ci hai unito,
rimani con noi, oh festa gentile.
Abbiamo parlato ascoltato, e visto ricomporsi sempre la pace e la luce.
Purezza ci accompagna a letto,
fino a che il sonno come un bambino affettuoso,
ci distolga insistente dal resto.

Il tempo era oggi più lento,
e lasciava andare in alto le nuvole lievi:
a realtà quasi era giunto il sogno,
quando anelammo ad aprire la misura avara,
ad avere ciascuno un libero tempo,
infiniti silenzi spazi operosi.

Ci chiameremo domani sorridendo,
consapevoli di oggi come un fatto avvenuto,
del sacro che ogni cosa mostrava,
come giovane donna che dal lavoro della settimana sui campi,
ecco appare la domenica
sulla soglia della chiesa con profilo gentile.

La festa vibrava fin lontano di crescente apertura,
non indugiando sul male,
così come i giovani fan posto ad ogni altro,
come a primavera le tante pianticelle sui campi,
verdi piene di succhi,
talvolta anche appoggiate tra loro per giuoco.

E quanto più ci si forma in gustata arte e in pensare,
tanto allieta riudire l’usignolo scegliente i suoi vari suoni:
che fa negli intervalli?
non osiamo guardare verso il folto,
appressarci all’albero che lo sorregge:
per lui ci è sorto un affetto agli uccelli, anche senza voce soave.

In certi istanti la festa parve affievolire
Il rilievo delle cose,
come ci richiamasse l’occhio a non perdersi guardando,
e ci spingesse all’impegno,
di là dal limitato conoscere,
di agire al colmo di tanta purezza.

Bei mattini quando ai templi tra pini e olivi
salivano giovinette vestite di bianco,
bello quando oggi ascoltiamo in campagna
tra le onde dell’aria di maggio,
nel culto del crocifisso salito dall’oscuro alla luce,
festeggianti appassionate campane.

Più aperto è l’atto,
la religione della libera aggiunta a tutti,
non divisi da gelosia di dei, e tormento d’inferno,
in ogni punto presenti,
come è il campo di steli di grano moltitudine viva,
e il cielo amichevole gregge.

Buona notte ad amici e ad ignoti,
ai morti riveduti nel lampo della festa:
come ognuno ama in atto tutti,
così tutti il sonno unisca, disceso senza lotta:
entriamo pacati nella notte grati alla festa,
dopo esserci aperti a lei.

Da Omaggio ad Aldo Capitini di Danilo Dolci 

L’ho incontrato, in alto nella torre
del Comune di Perugia,
la dimora del padre campanaro:
era basso ma vedeva lontano,
impacciato a camminare
ma enormemente libero e attivo,
concentrato
ma aperto alla vita di tutti,
non ammazzava una mosca
ma era veramente un rivoluzionario,
miope ma profeta.

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