Pechino e il Mito della Caverna
Roberto Reale
Come i prigionieri incatenati che (nella Repubblica di Platone) vedono solo le ombre sul fondo della caverna, noi di questa realtà politico/commerciale non abbiamo scorto quasi nulla…
Cosa abbiamo visto delle Olimpiadi di Pechino? Nella mente di ciascuno di noi è rimasta un’immagine, una sensazione. Probabilmente saranno i cento metri di Usain Bolt a passare alla storia come l’evento più straordinario. Chi ricorda un altro record del mondo ottenuto con tanta strepitosa facilità e spensieratezza? Dei Giochi abbiamo visto le imprese degli atleti. Qualcuno ha osservato che erano come splendidi aquiloni che si libravano nel cielo. Ma, nel frattempo, sulla terra cosa succedeva? Alla fine dello scorso anno l’Economist aveva previsto che le Olimpiadi di Pechino sarebbero state il più grande evento politico del 2008 insieme alle elezioni americane.
Mai pronostico è apparso più indovinato. Il consenso interno per il regime cinese ha oggi toccato lo zenit. La rincorsa, durata trent’anni, è finita. Le 51 medaglie d’oro conquistate dagli atleti di casa, sotto gli occhi meravigliati del mondo, hanno rappresentato la consacrazione della grandezza di un gigante destinato a primeggiare nel secolo appena iniziato.
Ma allora le Olimpiadi sono state un fatto interno cinese? Sarebbe anche questo un imperdonabile errore di prospettiva. I Giochi sono stati l’evento globale per eccellenza. In confronto i raduni annuali del G8 paiono delle stanche quanto inutili comparsate di potenti presuntuosi quanto privi di consenso. Stavolta sono entrate veramente in campo le “masse”. Si vuole un dato introvertibile? Negli Stati Uniti queste Olimpiadi sono state l’evento televisivo più seguito di ogni tempo. In 16 giorni di programmazione si sono appassionati alle gare sugli schermi della NBC oltre 211 milioni di spettatori. L’esultanza degli sponsor ( Coca Cola, Mc Donald’s, Lenovo, Adidas e altri) è travolgente. Tutti hanno guadagnato una montagna di quattrini compreso ovviamente il Comitato Olimpico Internazionale, un’organizzazione rappresentata dal volto inquietante di Jacques Rogge, un uomo che negli ultimi anni non ha mai nascosto il proprio cinismo. Per lui lo sport è un mezzo per fare affari, tessere relazioni, acquisire potere. Da uno così il mondo poteva attendersi un impegno per la promozione dei diritti umani in Cina? Assolutamente no e infatti, in queste direzione, non ha fatto nulla, dall’inizio del suo mandato ( nel 2001) fino alla cerimonia di chiusura.
Come i prigionieri incatenati che (nella Repubblica di Platone) vedono solo le ombre sul fondo della caverna, noi di questa realtà politico/commerciale non abbiamo scorto quasi nulla. Qualcuno naturalmente ha parlato di un Occidente che doveva fare di più per i diritti umani in Cina. Qualcuno ha raccontato della beffa subita da due anziane cittadine pechinesi, Wu Dianyan, 79 anni e Wang Xiuying di 77, che volevano protestare ( contro lo sfratto subito) in una delle tre aree della città a questo destinate ( a parole) dalle autorità e che sono state invece “catturate” condannate a un “anno di rieducazione attraverso il lavoro”. Il Cio, ovviamente, non ha fatto una piega davanti a questo come ad altri mille abusi verificatisi proprio nei giorni dei Giochi. Non perché non abbia attenzione verso quello che accade in Cina ma perché non ha alcun interesse, in assoluto, alla questione dei diritti umani. Ed è proprio qui il punto che i 23mila giornalisti inviati a Pechino non hanno colto ( contrariamente ai colleghi corrispondenti). L’errore è quello di pensare a un Occidente che, in piena salute, dovrebbe impegnarsi a fare qualcosa per i poveri cinesi o per gli ancora più miserabili tibetani. Il problema non è questo. L’ottica va ribaltata. La Cina è ormai un modello che concilia strepitosa efficienza ( magari non consolidata ma significativa) , grande sviluppo del mercato e assoluta assenza di libertà. Le autorità del paese si proclamano comuniste e tali sono sul piano dell’autoritarismo storicamente ereditato dal tempo di Mao. Ma hanno un’idea della globalizzazione come di un enorme mercato dove tutto è determinato dal successo affaristtico/imprenditoriale. Questa “visione del mondo” incrocia e si fonde con quella delle grandi aziende occidentali, degli apparati tipo Cio. Cosa c’è per costoro di meglio di un mondo dove si può fare business senza alcuna forma di controllo democratico? Per questo la questione dei diritti riguarda prepotentemente noi occidentali. Con il “messaggio” che è arrivato “alle masse televisive” dalle Olimpiadi rischia di fare un passo indietro il pianeta. Si parla molto in queste settimane dello “sfarinamento” dell’ opinione pubblica in Italia, della trasformazione dell’individuo da cittadino a spettatore. Che è esattamente, su scala planetaria, quanto abbiamo fin qui descritto. Un “pensiero progressista” non può non ripartire se non allarga i propri orizzonti, se non rilancia un’idea di globalizzazione alternativa a quella degli esecutivi politico/aziendali. Oggi non siamo del tutto disarmati. Siamo più interconnessi che mai. Il mondo può fare sentire la propria voce, mettersi in Rete, creare le premesse per sviluppare forme nuove e trasnazionali di controllo/denuncia sull’operato dei potenti. Per questo le domande di giustizia e di libertà vanno rilanciate da qualunque paese esse provengano. Vale la pena credere e darsi da fare per la globalizzazione dei diritti, delle idee, della tutela delle persone. Bisogna però “spezzare le catene” e uscire dalla caverna. E’ faticoso, costa qualche sacrificio, singifica mettere in discussione antiche certezze, farsi molte domande piuttosto che ricorrere a vecchie risposte . Pechino ci ha detto però una cosa, l’alternativa è soltanto una: continuare a guardare le ombre sulla parete.
Fonte: Articolo21
26 agosto 2008