L’incidente che cambiò la storia


La Stampa


Il 26 aprile 1986 esplose il reattore della centrale atomica di Chernobyl. E cancellò l’utopia dell’energia atomica. Trent’anni dopo ancora non è stato completato un “sarcofago” sicuro per arrestare le radiazioni.


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chernobylAlessandroLucca

ROBERTO ANTONINI

Gli abitanti della città di Pripjat furono i primi a sapere. Era l’una e ventitré del 26 aprile 1986, un sabato, e dai loro balconi videro un bagliore illuminare la notte. Gli europei lo seppero due o tre giorni dopo, con le nuvolette disegnate nelle grafiche dei tg che annunciavano il divieto di consumo di latte e verdure. Era saltata la centrale nucleare di Chernobyl, l’evento più disastroso della storia del nucleare civile. Quello che avrebbe cambiato per sempre la vita di milioni di persone, uccidendone un numero ancora imprecisato ma certo alto, condannando definitivamente l’immagine del nucleare.

TUTTO NACQUE DA UN TEST
Tutto nacque da un test di sicurezza. La gestione, secondo le cronache emerse dalla caligine sovietica, fu demenziale. E quando attorno all’una di notte furono disattivati i sistemi di emergenza per effettuare le prova, un’incredibile catena di errori, disattenzioni e inefficienze, unita alla tecnologia insicura del reattore sovietico di derivazione militare Rbmk, portò al disastro. Per una serie di manovre malaccorte la fissione diventò incontrollabile, il reattore raggiunse 120 volte la sua potenza massima ed esplose, scaraventando in aria una piastra da mille tonnellate e un’enorme quantità di materiale radioattivo: polveri, fumi, vapori carichi di radionuclidi.

Secondo le cronache, Alexander Akimov, responsabile del turno di notte, pochi istanti prima premette il tasto AZ-5, arresto d’emergenza, ma era troppo tardi. Nel migliore stile sovietico, le informazioni e le azioni vennero ritardate e mentre i primi eroici operai corsi a spegnere le fiamme già morivano di radiazioni, a Mosca ancora non si sapeva bene cosa fosse accaduto. Sta di fatto che si sprecò un sacco di tempo prezioso mentre un pennacchio alto centinaia di metri portò in tutta Europa il terrore dell’invisibile morte nucleare.

ANCORA NON SI SA QUANTI MORIRONO
Quello della centrale ucraina non fu il primo incidente nucleare grave, a parte quelli secretati in Urss ce n’erano stati un paio a Windscale-Sellafield, Gran Bretagna, c’era stata Three Mile island, Usa, nel 1979 (12 giorni prima era uscito il profetico film ’Sindrome cinese’): casi gravi ma niente di paragonabile a Chernobyl, che sulla scala Ines di gravità degli incidenti atomici è a livello 7, il massimo. Quanti morti? Non si sa di preciso, e i dati si perdono nel rumore di fondo delle statistiche dell’incidenza dei tumori e delle morti per cancro. Le stime di varie agenzie Onu parlano di 65 decessi certi e 4.000 vittime di tumori e leucemie ’collegabili’. Gli ambientalisti parlano di centinaia di migliaia di malati e decine di migliaia di morti. Intanto le macerie radioattive sono ancora lì, in un sarcofago fessurato ma garantito – si spera – solo fino al 2023. Quello nuovo, un mostro alto 100 metri dovrebbe essere pronto, forse, nel 2017 ma ha già 12 anni di ritardo e costi quadruplicati a 2,15 miliardi, con la comunità internazionale in aiuto di un’Ucraina messa sempre peggio.

LO TSUNAMI E FUKUSHIMA, 2011
A un certo punto quell’aura negativa sul nucleare, che nel 1987 in Italia spinse il referendum che lo fermò, sembrò dissiparsi, e a cavallo degli anni Duemila l’energia atomica riprese quell’immagine scientista di soluzione pulita, dai rischi controllabili, appetibile soprattutto nel contesto della crisi climatica. Si contano diversi casi di conversioni eccellenti fra ambientalisti già di rango accolte con entusiasmo dalle aziende nucleari. Ma, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. L’11 marzo 2011 un terremoto e un maremoto catastrofici colpirono la prefettura di Fukushima, in Giappone, e l’omonima centrale. Fu un disastro e anche questo evento fatale meritò il grado 7 della scala Ines, unico insieme a Chernobyl.

Le somiglianze sono numerose: se l’Urss del 1986 era ancora “un mistero all’interno di un enigma” come ai tempi di Churchill, le scelte della Tepco, la compagnia nipponica che gestiva Fukushima, confermarono la natura opaca dell’industria nucleare, con informazioni parziali e contraddittorie diffuse nei giorni successivi all’evento. Anche quella volta in Italia la paura – giustificata – si scaricò in un referendum, quello del 12 e 13 giugno dello stesso anno che travolse la velleitaria revanche atomica a tecnologia francese decisa dall’allora governo che, all’indomani del disastro in Giappone, aveva già sospeso il programma fermandosi a un passo dal baratro, per così dire.

NESSUNO HA COSTRUITO IL DEPOSITO
Cionostante il nucleare continua a crescere, soprattutto in Asia, con la Cina che ha 31 reattori operanti e 24 in costruzione, ma a frenare la tecnologia non è solo la paura, ci sono i limiti intrinseci della tecnologia. Oltre ai costi il problema di fondo è la gestione delle scorie che non ha trovato una soluzione. Ad oggi nessun Paese ha realizzato il famoso deposito geologico definitivo dove conservare i rifiuti ad alta radioattività. Problema non da poco, visto che secondo la Commissione Ue serviranno 253 miliardi per la gestione del fine vita delle centrali nucleari europee, 123 miliardi per lo smantellamento delle vecchie centrali nucleari e 130 miliardi per lo stoccaggio in siti geologici sotterranei, valori che potrebbero essere per di più sottostimati.

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